Napoli e re Tancredi

L’incorporazione di Napoli nel regno, operata da Ruggero II, mortificò l’economia cittadina, frenò lo slancio alla navigazione ed al commercio via mare e chiuse le forze economiche e produttive locali in un ristretto mercato locale. A certe esigenze, frutto di una prosperità generale della città, rispose solo Tancredi, nel 1190 con una concessione accordata al popolo che stabiliva libertà di traffico e di movimento in Napoli e nelle altre città del regno, per terra e per mare. Il privilegio di Tancredi rendeva i mercanti napoletani esenti da dazi e permetteva alla città anche di battere moneta argentea. Fu un provvedimento complessivo di grande forza politica che si rivelò fondamentale per respingere l’invasione di Enrico VI.

Le avvisaglie dell’ostilità dei napoletani alla monarchia normanna c’erano già state. Nel 1160 la nobiltà di Napoli insorse contro Maione, il ministro di Guglielmo I, guidando una rivolta su larga scala a cui presero parte anche “Ionathas comes Consie, et Gilbertus comes Grauine, et Boamundus comes Monopelli, et Rogerius comes Acerre, et Philippus comes de Sangro, et Rogerius comes Tricarici, etm ulti barones cum Melfiensibus”. Insofferenti all’accentramento dei poteri nelle mani del re, videro in Maione, il principale consigliere del sovrano, il capro espiatorio. La ribellione coinvolse anche ampi settori popolari, soprattutto mercanti che si spingevano in altre regioni del regno e sentivano il peso dei dazi che ostacolavano la loro attività. L’uccisione di Maione di Bari e il tentativo di modificare le politiche regie, fallirono. Solo Tancredi, asceso al trono alla morte di Guglielmo il Buono, con avvedutezza più che coraggio, si rapportò alle richieste di una economia cittadina che aveva raggiunto un discreto livello di capacità di espansione. Accettò pure di ricostruire, a spese della corte, le mura della città.

Una novità per Napoli fu costituita dal consolato, istituzione completamente nuova a garanzia della maggiore autonomia riconosciuta. Napoli, retta da un consiglio di consoli, presieduto da un napoletano, si riaffacciò nell’agro aversano, ripigliando l’antico controllo della Chiesa di Aversa. Il grande sostegno che il provvedimento fornì a Tancredi fu

Tutto ciò fu in larga parte il risultato dell’influenza esercitata dalla Chiesa di Palermo sulla politica del giovane re per evitare le ribellioni comunali che si verificavano nel Nord Italia. Il potere regio era infatti in una situazione di particolare debolezza, l’ombra minacciosa di Enrico VI di Svevia stava per calare su un regno diviso da lotte intestine e, come opera di calcolo, concessioni regie, come quella in favore di Napoli, venivano a rappresentare un punto di convergenza e dissoluzione di pericolose insoddisfazioni.

Napoli entrava, infatti, nell’orbita del partito di Tancredi e non ne sarebbe uscita neppure sotto cannoneggiamento. Era un sito che poteva anche decidere le sorti di quella campagna. E così fu.

Saldamente fortificata, difesa dal mare dalla flotta dell’ammiraglio Margaritone, essa, in vero, oppose strenua resistenza all’esercito imperiale, comandato da Enrico VI in persona, nel 1191. Resistette al blocco, alla fame, alla sete. Le milizie napoletane e normanne, poste sotto il comando di Riccardo, conte di Acerra, cognato del re, e di Niccolò d’Aiello, arcivescovo di Salerno, ebbero ragione più volte delle schiere sveve. Quando Enrico VI tolse l’assedio a Napoli senza aver ottenuto nulla di fatto e tornò mestamente in Germania, Tancredi riprese Capua, Aversa, Teano, Montecassino.

Tuttavia, nel 1194, morto Tancredi e succedutogli suo figlio Guglielmo III, sotto la reggenza della regina Sibilla, la città aprì le porte agli svevi accorsi in forze maggiori, con l’appoggio delle flotte di Genova e Pisa.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: M. Fuiano, Napoli nel Medioevo (secolo XI-XIII)

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