Gli opifici laziali nella relazione Nigrisoli

Probabilmente l’analisi dell’economia dello Stato Pontificio fatta da Gaetano Nigrisoli nel 1857 è la più dettagliata. Nigrisoli era professore di chimica all’Università di Ferrara e con impegno riassunse tutti i prodotti agricoli e manifatturieri papalini, elencando i principali centri di produzione.Pubblicò il suo lavoro sotto il titolo di “Rivista dei più importanti prodotti naturali e manifatturieri dello Stato Pontificio”, senza mancare di chiedere l’introduzione di moderne macchine a vapore. La loro assenza era la ragione della grande distanza di risultati dall’industria estera. A riprova di ciò testimoniava quanto l’impulso dato dall’introduzione di nuovi macchinari nell’industria della carta avesse giovato alle cartiere di Roma, Subiaco, Grottaferrata, Bracciano, Viterbo, Ronciglione, Guarcino ed a Monte San Giovanni.

Su Roma evidenziò l’importanza dello stabilimento Mazzocchi al Vaticano, destinato alla produzione di ordigni in ferro e ghisa, stufe e caminetti. L’opificio si inseriva in una piccola rete di centri per la lavorazione del ferro comprendente Subiaco, Grottaferrata, Bracciano, Viterbo, Ronciglione, Canino e Tivoli. Il settore metallurgico produceva utensili, ferri da taglio, lamine, asce. Tivoli, in particolare, era considerato il principale centro industriale della Comarca, con ferriere che lavoravano viti e l’opificio di Villa Mecenate che, con i suoi 112 operai, realizzava lamine e spranghe. Al settore erano ascritte anche le fonderie di caratteri tipografici come la Propaganda Fide di Roma.

Dell’attività mineraria Nigrisoli elencava le allumiere di Tolfa e la cava di vetriolo nel Viterbese, l’allume, il rame e l’ottone lavorati a Ronciglione. Tuttavia il più vivace settore dell’economia manifatturiera pontificia era rappresentato dalle produzioni tessili. La lavorazione della lana, in effetti, era effettuata in tutto il territorio sia per creare tessuti che cappelli di feltro e felpa cordoni e tappeti. Come lanificio più avanzato era segnalato quello di San Michele da Ripa, superiore agli altri per quantità e qualità dei tessuti, per lo più destinati a tappeti e coperte, nonché a panni per l’abbigliamento delle truppe papaline; anche la lavorazione della seta era diffusa in tutti i centri. Pure quella del cotone, della canapa e del lino. In assoluta decadenza era la lavorazione del cuoio e della pelle, nuova era invece la produzione dei merletti “ad uso Fiandra” effettuata dalle 60 detenute della Casa di Penitenza di Roma.

Nella Legazione di Velletri scriveva che “le manifatture esistono in picciol numero, ed i loro prodotti non offrono che lieve interesse dal lato commerciale”. Una fabbrica di cappelli di feltro ed una di cera, sorgevano nel capoluogo. Altre due fabbriche di cappelli si trovava a Terracina, una seconda di cera si contava a Ronco. Nigrisoli però precisava che “i nominati opificii possono chiamarsi in abbozzo, avvenendo dei loro prodotti traffico di tenue importanza nella Provincia”. Il settore manifatturiero della legazione aveva la sua forza nella produzione di carbone, botti, doghe, vasellami e carbonato di potassio.

Nella Delegazione di Frosinone le cose erano leggermente diverse. Frosinone “non presenta verun opificio meritevole di essere notato, ma invece questi opifici esistono in alcuni Comuni”. Erano sparse in vari comuni fabbriche di cappelli, canapa, lino, cotone, spirito e liquori, ma anche fornaci per la produzione di mattoni e stovoglie. Ad Alatri le acque del Cosa alimentavano filande di lana in cui si realizzavano tessuti di qualità pregevole; a Monte San Giovanni si contavano “nitriere, e due fabbriche di polveri sulfuree”, nonché una cartiera alimentata dal Liri che con la sua produzione forniva “le due limitrofe Delegazioni, ma ne sopravanza considerevole quantità, ch’esportasi per Roma, ed altrove”; a Ceprano si produceva eccellente olio di ricino con l’uso di “un grandioso torchio idraulico”; a Guarcino esistevano una cartiera ed una concia di pellami alimentate dalle acque del Cosa, fabbriche di “oggetti di faggio, candelabri, piatti, cucchiarelle ecc.”.

Nella Delegazione di Rieti “tranne scarse fabbricazioni di potassa, e di carbone, non vi ha che Poggio Mirteto fornito di una bellissima fonderia di vetri, e cristalli, le cui pregiabili e copiose produzioni servono ad un fiorente commercio collo Stato, ed anche coll’Estero”. A Rieti esistevano un grande opificio per la lavorazione di tessuti in lana e cotone, “due concie di pellami, che somministrano prodotti mediocri, e vi hanno pure quattro fabbriche di cappelli ordinari, ed una di fini” e nel locale orfanotrofio femminile era appena stata attivata una filanda di seta a vapore.

Le industrie scarseggiavano anche nella Delegazione di Civitavecchia “non tanto per la scarsezza degli uomini da impiegarvisi, quanto anche pel poco, o niuno appoggio, che si avrebbero dai principali possidenti, e capitalisti”. L’economia della città di Civitavecchia era legata al Porto Franco da cui “gli abitanti traggono somme pressochè incalcolabili, ond’è che, mancando ogni idea di speculazione, la quale non riducasi ad un semplice calcolo, non può essere in vigore l’industrialismo tecnico, che debbe trovarsene affatto indipendente, ove si richiamino al pensiero i vari elementi, che guidano all’istituzione del medesimo, ed il movimento commerciale dei suoi prodotti. Perciò avviene, che in Civitavecchia non affacciasi che un grandioso opificio camerale, che serve alla lavorazione di cotonine, e di rigatini d’ogni sorta, ed in molta abbondanza… permettendo il Governo, che siano impiegate nel predetto Stabilimento i forzati della Darsena, o Bagno, con tenuissimo giornaliero compenso”. A Civitavecchia esistevano pur anche una concia di pellami, “un accreditato arsenale, ed un vasto cantiere da costruzione”. I forzati erano impiegati anche nelle saline di Corneto, ma nel rimanente della delegazione non sono in attività industrie manifatturiere degne ancora di nota.

Nella Delegazione di Viterbo si segnalavano, oltre le citate fabbriche di allume e le ramiere di Ronciglione, favorite “dall’abbondanza di acque buonissime apprestate dal gran Lago di Vico posto alla falda di Monte Venere, e di Monte Pagliano”, anche le fabbriche di maiolica e terraglie di Cività Castellana.

Un vero incremento, secondo le stime del Nigrisoli, l’avevano vissuto il settore alimentare – con numerose fabbriche di paste da frumento site a Roma “che lavoransi con tale raffinatezza, ed in tanta copia, che si è cessato di acquistarle dal Genovese e dal Napoletano” – e quello del materiale edilizio – con la fabbricazione di tegole e mattoni tra Tivoli, Viterbo e Guarcino ed il vasellame di Velletri. Di notevole interesse era poi l’industria chimica della capitale, che produceva stearina, biacca, verderame, polveri solfuree, amido, cipria e spirito, e quella di vetriolo dei fratelli Pompei a Viterbo, al passo con le più moderne officine europee. L’impiego di queste sostanze chimiche garantiva la lavorazione della pece a Castro ed il miglioramento della produzione di sapone a Roma e Marino.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: P. Toscano, Per la storia dell’industria romana contemporanea

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