Quattro passi a Monselice

Il viaggiatore che percorre la SS16 Adriatica in direzione di Monselice sicuramente non presterà attenzione, poco dopo l’abitato di Battaglia Terme in località Rivella, ad un interessante manufatto idraulico, spina dorsale del “Retratto di Monselice”.
Con l’istituzione nel 1556 dei “Provveditori sopra li loci inculti” venne avviata la bonifica integrale della Bassa Padovana, con l’obbiettivo, ma non solo quello… di aumentare la produzione alimentare e liberarsi dalla necessità delle importazioni dalla Turchia.
Il primo Retratto istituito fu quello di Monselice, i cui lavori iniziarono nel 1557.
Il territorio del Retratto era, ed è tuttora, limitato verso il mare dall’argine del Canale Battaglia che essendo rialzato rispetto al piano campagna impedisce il deflusso. Per risolvere il problema gli ingegneri della Repubblica costruirono una botte idraulica per consentire alle acque scolanti dal Retratto di sottopassare il Battaglia.

Per finanziare l’opera la Repubblica istituì un pedaggio, palada, di sei soldi da far pagare a tutte le navi in transito sul Battaglia, dando l’appalto per la riscossione alla fraglia dei barcaioli di San Zuanne (San Giovanni delle Navi di Padova) e “ciò per anno venturo principerà quando sarà aperto il detto canale”.
La botte della Rivella non si limitava a consentire il sottopasso del Battaglia alle acque scolanti dal Retratto.
Gli argini ospitavano il sedime di due strade collegate tra di loro tramite un ponte. L’inconsueta struttura che consentiva l’incrocio a due canali ed a due strade colpì il filosofo Francese Montaigne che nel suo “Journal de voyage en Italie” così la descrive: “C’è poi giù nella piana un altro grosso rivo che viene dalle montagne, e il cui corso traversa il canale; appunto perché potesse farlo senza interromperlo è stato costruito il ponte di pietra su cui il canale scorre, mentre sotto scorre il detto rivo, tagliandolo su un letto rivestito di legno sui fianchi. Di modo che il rivo è in grado di portar barche; avrebbe spazio sufficiente in altezza e in larghezza. E poiché altre barche passano continuamente sul canale, e dei carri sul più alto dei ponti, si hanno tre strade una sull’altra”.

Sempre alla Rivella, vicino alla botte idraulica, si trova una notevole villa veneta, risalente al 1588 e generalmente attribuita allo Scamozzi. Attualmente è di proprietà degli Emo-Capodilista, e fu probabilmente fatta costruire dalla famiglia Contarini, subendo nei secoli numerosi passaggi di proprietà.
Nei primi anni del XVII secolo apparteneva ai Penumia, poi ai Malipiero, ed infine verso gli anni Sessanta fu dei padovani Cortusi.
I Cortusi erano una famiglia di origine germanica, residente a padova almeno dal 1014, decisamente ricchi non erano tuttavia nobili.
Nel 1377 i Cortusi furono esiliati ed i loro beni fatti confiscare da Francesco I da Carrara, poterono rientrare in città solo a seguito della conquista veneziana di Padova.
Aldrighetto Cortusi nel 1435 non aveva dimenticato il debito che la sua famiglia aveva nei confronti della Dominante.
Venuto a conoscenza che Marsilio, un figlio naturale di Francesco I, stava complottando per riprendersi Padova denunciò il tutto alle autorità veneziane che poterono così catturare l’audace e decapitarlo in Piazza San Marco.
Come segno di inestinguibile gratidutine della Dominante Aldrighetto ed i suoi discendenti furono esentati perpetuamente da “tutti gli oneri personali, reali e misti”. La fedeltà paga.

Proseguendo nel dirigersi verso Monselice, il viaggiatore, se sceglie di abbandonare la SS16 per proseguire in via Padova, avrà modo di arrivare, poco dopo l’incrocio tra questa e via Savellon Molini, al sostegno noto come “La Bastarda”. Li avrà modo di osservare come in quel punto il Canale Bisatto si biforchi, il viaggiatore deve infatti sapere che…

Prima della costruzione, ad inizio XIII secolo, del Canale Battaglia le acque del Bisatto utilizzavano come direttrice di deflusso verso la laguna l’odierno Canale di Bagnarolo.
Il Canale di Bagnarolo non fu tuttavia abbandonato, la differenza di livello tra questo ed il Battaglia permise di utilizzarlo come “troppo pieno” del secondo mentre l’energia prodotta dal salto fu da subito sfruttata per l’istallazione di un mulino idraulico.
Il Mulino di Bagnarolo, i cui resti sono tuttora visibili al viaggiatore sulla sua sinistra, ad inizio del XX secolo fu oggetto di un dibattito riguardante la sua riqualificazione che, se realizzata, avrebbe cambiato Monselice.
La proposta era quella di realizzare una centrale idroelettica che sfruttasse la differenza di livello tra i due canali.
L’energia prodotta, circa 45 chilowatt, avrebbe consentito un più economico funzionamento del mulino, contribuendo quindi ad abbassare il prezzo del pane con notevole beneficio della popolazione più povera, oltre a ridurre i costi sostenuti dal Comune per l’illuminazione pubblica, 181 lampade nel 1907, ed a creare le premesse per l’insediamento in zona di attività industriali indispensabili per “elevare economicamente lo stato della cittadinanza”.
Purtroppo il progetto incontrò da subito l’ostilità di Giuseppe Volpi, Conte di Misurata e megapresidente della Sade, che non gradiva l’idea che a Monselice si realizzasse un concorrente della lanciatissima Centrale Idroelettrica di Battaglia Terme
Abbandonato il progetto il mulino continuò a funzionare fino al 1950, succesivamente cessata l’attività molitoria ospitò per alcuni anni un’officina automobilistica fino all’abbandono attuale.

 

Ritorno a Monselice

e Mura Carraresi, e la sua attenzione sarà catturata da una “Porta che non porta”. Il viaggiatore deve sapere che quella è, forse dovrei scrivere era Porta della Giudecca. La porta era utilizzata per accedere alla “Zoecha”, la monselicense Giudecca. Questa contrada, delimitata dalle odierne vie 28 Aprile e XI Febbraio, era il luogo dove abitava, da inizio Trecento, la comunità ebraica di Monselice.

Lasciata la “Porta che non porta” il viaggiatore avrà di fronte a sé il Canale Bisatto, e la sua attenzione sarà catturata da alcune bitte d’ormeggio seminascoste dalla vegetazione. Incuriosito da questi manufatti, apparentemente incongrui rispetto all’ambiente pedecollinare che lo circonda, il viaggiatore avvicinatosi ne noterà degli altri, scale in pietra, rampe di discesa, banchine. Il viaggiatore deve infatti sapere che, in passato, il Bisatto ha svolto il ruolo di arteria commerciale della Bassa Padovana e Monselice era caratterizzata dalla presenza di un porto fluviale.

Il canale non era solo un’arteria commerciale, ma anche una “località turistica”. Antonietta Bertazzo riferisce infatti che sua madre le raccontava di come coloro che non potevano permettersi una vacanza balneare ripiegavano su una giornata sugli argini del canale. All’epoca, parliamo di circa settanta anni fa, le condizioni dell’acqua erano completamente diverse rispetto ad oggi ed era possibile anche la balneazione.

Proseguendo in Via Argine Destro il viaggiatore arriverà all’incrocio di questa con Via XI Febbraio e Via Trento Trieste. Piegando a destra su Via Trento e Trieste oltrepasserà, su un ponte in ferro, il Canale Bisatto. Se poi una volta giunto in sinistra idrografica sceglie di piegare a sinistra su Riviera Giovanni Battista Belzoni il viaggiatore noterà la fabbrica tardocinquecentesca di Villa Pisani dalle evidenti citazioni palladiane. Se aperta, entri a vedere gli affreschi, e poi un altro edificio dalle forme vagamente venezianeggianti, forse fatto edificare dai Malipiero, e discutibilmente restaurato. Conosciuto in passato tra i monselicensi come “Palazzo delle due scale”, è ricordato per aver brevemente ospitato nel 1820 il grande archeologo Giovanni Battista Belzoni, recatosi a visitare l’anziana madre che ivi risiedeva.

A ricordo del fatto è stata apposta, non sono in grado di dire in che anno, una lapide commemorativa che recita: “G. B. Belzoni / Aperta la piramide cefrenide / Trasportato il busto colossale di Memnone / Lustrata Tebe / Rivelata la città di Berenice / Qui / Dalle Erculle fatiche riposava / Nel MDCCCXX”. Nella parte bassa della lapide sono state inserite le riproduzioni di 2 medaglie realizzate in onore di Belzoni. Una coniata a Londra e famosa per aver riprodotto la piramide sbagliata, Cheope e non Chefren, e l’altra battuta a Padova.

 

Nel cuore di Monselice

Il viaggiatore che a Monselice in Riviera Belzoni parta dal “Palazzo delle due scale” per dirigersi verso il Ponte della Pescheria, qualora avesse effettuato questa passeggiata prima del 2004, superato l’Albergo “Al Cavallino” avrebbe potuto scegliere di piegare a destra in Via Francesco Petrarca. Due successive svolte a sinistra. in Piazza XX Settembre ed in Via Teatro. Gli avrebbero permesso di tornare in Riviera Belzoni dopo aver ammirato l’edificio, in realtà cadente, che dal 1918 al 1936 ha ospitato il Teatro Sociale e, fino al 2004, il Cinema Roma.

La sera del 7 febbraio 1945 il Cinema Roma fu stato interessato da un sanguinoso evento bellico, che ebbe tra i testimoni la monselicense Valmari Giuseppa. La figlia Antonietta Bertazzo riferisce un ricordo di sua madre: “Pippo aveva degli informatori, doveva bombardare il cinema Roma perché i tedeschi quella sera andavano a vedere uno spettacolo. Evidentemente è stato informato male perché ha bombardato quando i civili uscivano e i tedeschi entravano. E’ stata una strage, mia madre mi disse che c’erano pezzi di corpi dappertutto, gambe, braccia ecc. … lei sul ponte del grolla è caduta sopra un uomo che si lamentava ancora…”.

Per coloro che non fossero pratici di storia della Seconda Guerra Mondiale riferisco che “Pippo” era il nome con cui la popolazione del nord-est identificava un aereo alleato notturno destinato ad operazioni di intrusione e bombardamento sul Nord Italia. Il bombardamento, con i suoi tragici effetti, è ricordato anche da Maria Carazzolo nel suo “Più forte della paura” e grazie alla sua testimonianza sappiamo che i morti furono almeno sessanta.

Superato il Ponte della Pescheria ed attraversata Piazza Mazzini, il viaggiatore si troverà all’inizio di Via del Santuario, caratterizzata dalla presenza di non una ma bensì due emergenze architettoniche, l’ex Chiesa di San Paolo sulla sinistra e la Loggia del Monte di Pietà sulla destra.

Riguardo alla prima il viaggiatore deve sapere che Monsignor Evangelista De Piero, arciprete di Santa Giustina, fu tra i primi a porsi il problema di trovare una nuova, più ampia e comoda, sede per il Duomo. Riteneva che la soluzione migliore fosse l’allargamento ed allungamento della Chiesa di San Paolo tanto da incaricare l’ingegnere Lorenzo Polettini di realizzare un progetto specifico di cui restano le riproduzioni fotografiche delle tavole che mostrano la facciata ed il lato sinistra.

In rete le tavole vengono datate al 1880, ma, poiché il Polettini figura nel 1838 tra gli ingegneri incaricati della costruzione della ferrovia Milano – Venezia e poiché il Comune di Monselice realizzò dopo il 1856 la nuova sede municipale proprio di fronte alla Chiesa di San Paolo nello spazio destinato, nel progetto polettiniano, all’allungamento della stesss ed al giorno d’oggi da una discutibile fontana, sarei portato a datarle tra il 1844 ed il 1856.

La cosa interessante è che il progetto di Polettini presenta una notevole somiglianza con quello steso nel 1854 dall’architetto Riccoboni per la rifabbrica dell’arcipretale di Lozzo

Relativamente alla Loggia del Monte di Pietà ricordiamo che, durante la visita pastorale del 16 ottobre 1489, il Vescovo Pietro Barozzi si lamentò del fatto che nella città di Monselice fossero attivi alcuni banchi di prestito gestiti da appartenenti alla Nazione Ebraica. Convocato “consilium civium Montissilicisper sonum campanae” il Vescovo espose le ragioni per cui questa attività andava sospesa, proponendo in sua sostituzione l’apertura di un Monte dei Pegni. La proposta del Vescovo fu accolta e si stabilì che alla scadenza della Condotta questa non sarebbe stata rinnovata.

Il Monte dei Pegni iniziò l’attività nel settembre 1494 con un modesto capitale sociale, interamente versato, di Lire 362. La Nazione Ebraica tuttavia non accettò di farsi espellere dalla piazza monselicense, presentando ricorso al Veneto Serenissimo Governo con la motivazione che la presenza di un’attività di prestito concorrente avrebbe rappresentato un beneficio per la comunità in quanto i due enti si sarebbero fatti vicendevolmente concorrenza nell’offrire ai clienti le condizioni migliori.

La proposta della Nazione fu approvata e così essa poté riaprire l’attività. Da allora la situazione si polarizzò, con il Monte di Pietà che si occupava del piccolo credito verso le classi più poveri ed i banchi della Nazione che si occupavano del grosso credito verso la nobiltà locale ed il patriziato marciano.

Proseguendo su Via del Santuario, il viaggiatore, una volta giunto all’incrocio con Via Santo Stefano, troverà alla sua sinistra il monumentale complesso di edifici noto al giorno d’oggi come Castello Cini ed in passato come Ca’ Marcello. Nato nell’XI secolo come struttura difensiva a protezione della seconda cinta muraria il castello venne ingrandito da Ezzelino da Romano che aggiunse il massiccio torrione.

Monselice, dopo la caduta di Ezzelino, entrò a far parte della Signoria Padovana ed i Carrararesi iniziarono i primi lavori per trasformare la struttura da militare a residenziale. Il processo di conversione in abitazione civile verrà portato a termine nel XV secolo dalla famiglia veneziana dei Marcello, subentrati ai Carraresi nella proprietà della struttura dopo la dedizione di Padova a Venezia, tramite la costruzione del corpo centrale di collegamento in stile gotico veneziano comunemente noto come “Palazzetto”.

Ai Marcello si devono infine la sistemazione dei giardini e la costruzione della cappella interna. Nell’800 la proprietà del complesso passa ai Giraldi e da quest’ultimi, per via matrimoniale, ai Cini. Negli anni ’30 del secolo scorso l’allora proprietario Vittorio Cini fece effettuare un grandioso lavoro di restauro con l’obiettivo di fare del castello la sua residenza di rappresentanza. I lavori furono diretti dall’architetto Nino Barbantini che scelse di arredare ogni stanza con mobili e suppellettili del periodo in cui la stanza fu terminata, altomedievale nell’armeria, basso medievale nelle stanze carraresi rinascimentale in quelle Veneziane, creando una sorta di “viaggio nel tempo”.

La proprietà del complesso passò nel ’49 da Cini alla Fondazione Giorgio Cini e da questa, nell’81, alla Regione Veneto che ne ha confermato la destinazione museale. Il Castello, tuttavia, sarebbe potuto diventare la nuova sede del Comune di Monselice. Infatti, verso la fine degli anni ’30 del secolo scorso, Vittorio Cini propose al podestà di Monselice la cessione a titolo gratuito di Cà Marcello affinché il comune potesse ricavarne la nuova sede di municipio e Museo Civico. Purtroppo il podestà rifiutò la proposta dichiarando che “del Castello non avrebbe saputo che farne” a causa della “situazione finanziaria” del Comune.

Proseguendo la salita lungo Via del Santuario, il viaggiatore giungerà alla Chiesa di Santa Giustina, attualmente conosciuta come “Duomo Vecchio”. Ancora nel XIX secolo però i monselicensi si riferivano ad essa come “Duomo Nuovo”, questo perché fino ad inizio XIII secolo la sede originale della Pieve era sulla cima della collina e venne demolita quando Federico II di Hohenstaufen decise che la sommità del colle avrebbe ospitato un massiccio torrione. Per qualche tempo i monselicensi continuarono a frequentare il, per quanto mutilo, vecchio luogo di culto per poi decidere di edificarne uno nuovo. Verosimilmente si trattava della seconda metà del XIII secolo, questo perché tra il 1270 ed il 1271 il comune aveva contribuito con 500 Lire ai lavori di edificazione del “Duomo Nuovo”.

Superato l’abside del Duomo Vecchio, il viaggiatore può scendere, sfruttando il “Vicolo Scalon”, fino a Via San Martino. Qui, piegando a destra, si troverà di fronte alla fabbrica di Ca’ Emo. Costruito verosimilmente ad inizio ‘500 su preesistenti edifici basso-medievali, questa fabbrica ha subito nei secoli un continuo cambiamento della proprietà. L’ultimo passaggio venne perfezionato nel 1866 quando il monselicense Giacomo Marigo vendette la proprietà al Comune di Monselice, che lo destinò a sede dell’Ospedale Civile.

Nel 1923, con la costruzione della nuova sede ospedaliera in Via Porta Valesella, Ca’ Emo rimase libera ed il comune scelse di ospitare al suo interno prima la sezione femminile della vicina Casa di Ricovero e poi la Scuola di Avviamento Professionale. Dal 2020 l’edificio ospita uffici del GAL e dell’Università degli Studi di Padova.

Relativamente al periodo in cui Ca’ Emo fu sede dell’Ospedale Civile vale la pena ricordare che all’epoca il direttore era anche medico condotto. Nel 1908 per i due compiti riceveva annualmente come stipendio la somma di 3202,02 Lire. Di queste, 2702,02 costituivano l’assegno annuo della Condotta Medica, le altre 500 erano erogate sempre dal comune per l’impiego come direttore. Aggiornando quelle 3202,02 Lire con 112 anni di inflazione si ricava che corrispondono, più o meno, a 12880 € del 2020. Uno stipendio decisamente modesto rispetto allo standard moderno, ma lo stile di vita frugale dell’epoca lo rendeva interessante!!

Scendendo da Via San Martino, nella sottostante Via Carboni, il viaggiatore, se sceglie di dirigersi verso via San Luigi, avrà modo di vedere alla sua destra l’ex Chiesa di Santo Stefano. Nel primo dopoguerra, a causa del forte aumento della popolazione residente, la necessità di trovare una collocazione più comoda al Duomo di Monselice iniziò ad essere pressante. Tra i vari progetti presi in considerazione vi era anche quello del restauro di questa antica chiesa che un tempo era stata parte dell’omonimo Convento dei Padri Dominicani (soppresso dal Veneto Serenissimo Governo con Parte del 2 agosto 1770). Dal 1859 la chiesa era stata di proprietà del comune che l’aveva acquistata dall’ultimo proprietario, Gabriele Trieste, e da allora la struttura era stata adibita a stalla, magazzino ed alloggio per le truppe di passaggio.

Purtroppo il progetto di restauro naufragò preferendosi edificare, nel secondo dopoguerra, il deformante Duomo Nuovo dedicato a San Giuseppe Artigiano che si inserisce nel contesto medievale di Monselice con la stessa delicatezza con cui l’abbattuto Hotel Fuenti si inseriva nella Costiera Amalfitana, mentre la Chiesa di Santo Stefano rimase il rudere che faceva paura allo scrivente quando il suo babbo lo accompagnava al vicino, ed ahimè ormai chiuso, Cinema Corallo

 

Tra le strade di Monselice

Il viaggiatore proveniente da Este che a Monselice percorre via San Giacomo in direzione di Padova noterà sicuramente, poco dopo l’intersezione con via Vò de Buffi, la chiesa, con annesso monastero, che da il nome alla zona.

Entrambe le fabbriche risalgono almeno al 1162, anno in cui furono fondati come Ospedale per il ricovero dei poveri e dei pellegrini gestito dalle Benedettine.
Nel XIII secolo il monastero, grazie alle protezioni nobiliari ed alle entrate derivanti dai mulini di Bagnarolo, ottenuti a livello perpetuo dal comune di Monselice, godeva di una solida posizione economica.
La prosperità si interruppe bruscamente nel XIV secolo. Il saccheggio di Monselice da parte delle milizie di Cangrande della Scala nel 1320 distrusse i mulini di Bagnarolo, privando così le monache della loro più importante entrata. Col tempo emersero pure altri probelmi: la posizione del convento “extra moenias” non preservava le monache da contatti col mondo esterno, mettendo a dura prova la loro morale, fino a precipitarla nella corruzione più totale. Toccò al Vescovo Pietro Marcello, nel 1420, il doveroso compito di espellere le monache, rinviate “in patrias domos”, affidando il convento ai Canonici di San Pietro in Alga che si dedicarono con energia al restauro della chiesa che fu “ab imminenti ruina vendicata”.
Nel 1668 Papa Clemente IX soppresse l’Ordine dei Canonici, stabilendo che i beni di questi venissero incamerati dalla Repubblica che, attraverso la vendita, avrebbe ricavato risorse da destinare alla guerra contro il Turco.
Chiesa e convento vennero prima acquistati dall’Ospedale della Pietà di Venezia e da questo poi ceduti ai Frati Minori che ne presero possesso nel 1676, possesso che detengono ancora oggi.

Proseguendo in direzione Padova su via Garibaldi il viaggiatore giungerà alla rotonda di intersezione con via Cadorna, dove alla sua destra potrà osservare la deformante mole del Duomo Nuovo. Superato anche questo, ed immessosi in via Roma, inizialmente lascerà alla sua destra Piazzale Vittoria, con i giardini pubblici e la sede comunale, per arrivare infine alla Chiesa di San Paolo. Proseguendo ulteriormente lungo via XXVIII Aprile il viaggiatore sicuramente non presterà attenzione all’edificio ancora alla sua destra, immediatamente prima dell’incrocio con via XI Febbraio. Deve però sapere che…

Nel settecento il palazzetto ospitava l’albergo “Alla Posta” che il 27 giugno 1785 potè vantarsi di avere tra i propri ospiti l’Imperatore Giuseppe II ed il di lui fratello Arciduca Pietro Leopoldo. Particolare curioso, nonostante gli oltre duecento anni trascorsi l’edificio non ha perso la sua destinazione turistica, ospitando i locali dell’Affittacamere Cà Marcello.

Proseguendo su via XXVIII Aprile in direzione di Padova il viaggiatore, immediatamente dopo aver superato la porta omonima, troverà alla sua destra un terreno apparentemente privo di storia. In realtà esso ospitava fino al 1778, anno in cui i membri della Nazione Ebraica dovettero lasciare Monselice, il piccolo cimitero della loro comunità. Era fornito di abitazione per il custode ed era stato acquistato dalla famiglia Sacerdoti, probabilmente la più importante della piccola comunità dato che i suoi membri, come Pellegrin Sacerdoti nel 1698, agivano come Rappresentanti.

Giunto alla rotonda d’intersezione con via Castello si piega a destra per immettersi in questa. Così si avrà modo di inserirsi successivamente prima in via Gallilei, poi nella SS16. Poco dopo l’intersezione tra le due arterie il viaggiatore presti attenzione alla sua destra. Qui avrà modo di vedere, a mezza costa sul colle, una piccola chiesetta, dedicata a San Tommaso.

Il tempio, che risale almeno al XII secolo, era in origine la cappella della “curtis” di “Petriolo”, popoloso centro abitato ormai scomparso, e poteva contare su di un beneficio di sedici campi padovani che le fruttavano circa 54 staia di frumento.
Il progressivo sviluppo del “borgo di San Paolo”, che finì praticamente per coincidere con Monselice stessa, causò il progressivo spopolamento degli altri borghi posti alle falde del colle tra cui anche Petriolo. Completamente abbandonata dai primi anni del XX secolo ad inizio anni ’80 la chiesetta era a rischio crollo. Salvata con un attento restauro è stata da dieci anni affidata ai ragazzi della “Compagnia del lupo passante” che la usano come palestra di scherma storica e museo.

Qualche tempo fa mi sono recato in quel di Monselice onde raccogliere documentazione fotografica relativa ad alcuni monumenti. Giunto proprio alla Chiesetta di San Tommaso, mentre raccoglievo il materiale richiestomi, la mia attenzione è stata catturata da una lapide murata su una delle pareti esterne del tempio, lapide su cui potevo leggere:

HIC
ECIVIBVS MONTISILICIS
VNVS
IN NOTARIORV COLLEGIO
CAROLVS FINCATO
IVXTA
NOLARV TVRRIM
EXTREMVM TVBÆ SONV
NON NOLIT
EXPECTARE
SEXTO KAL APRILIS
1726

Purtroppo la mia scarsa conoscenza del latino mi consentiva solo di apprendere che la lapide era stata murata in un giorno di aprile del 1726, lasciando oscuro il significato delle parti rimanenti… Col soccorso di Davide Alessandra ho ottenuto questa traduzione: “Qui uno dei cittadini di Monselice nel collegio dei notai il notabile Carlo Fincato presso la torre campanaria non volle aspettare l’ultimo suono delle trombe. 6 giorni alle kalende di Aprile 1726 (27 marzo 1726)”. Il testo era stato tradotto, però il suo significato finale restava oscuro…
Una ricerca sui miei libri non dava risposte, costringendomi ad interrogare il Sommo Google e da qui passavo a consultare la Storia di Monselice di Celso Carturan. Vi trovavo pag. 653, di Carlo Fincato, notaio in quel di Monselice dal 1681 al 1725. Incrociando questi scarsi dati con l’inquietante testo della lapide mi sono fatto l’idea che, forse, quasi trecento anni fa, in quel punto, un ormai anziano Carlo abbia “scelto il buio”.

Una volta sceso fino alla SS16 il viaggiatore prosegua in direzione di Este. Giunto alla rotonda di intersezione con via Orti deve piegare a sinistra in direzione del casello autostradale. Arrivato all’altezza di via Vetta presti attenzione all’azienda agricola che trova alla sua destrra, posta poco prima della rotonda del cimitero. Deve infatti sapere che… L’azienda agricola di cui sopra utilizza gli spazi di quello che fu l’antico convento benedettino di San Salvaro, filiazione del monastero di Santa Giustina a Padova, costruito nel XIII secolo per amministrare i circa duecentocinquanta campi padovani posseduti in zona. Il convento, che garantiva alla casa madre un reddito di centcinquanta ducati, ospitava regolarmente quattro monaci a cui si aggiungevano per brevi periodi dei confratelli di Santa Giustina, inviati dall’abate a mezzo barca, per “riposo e villeggiatura”.

 

 

 

 

Autore articolo e foto: Enrico Pizzo

Bibliografia: A. Pettenella, Storie Euganee; F. Selmin, I Colli Euganei; R. Valandro, Monselice e la Bassapadovana tra ‘400 e ‘500; R. Valandro, I secoli di Monselice; Y. Louagie e P. A. Quintili, Alla ricerca del ponte di Montaigne in “Terra e Storia” numero 5-6; F. Selmin, Atlante storico della Bassa Padovana – Il primo Novecento; A. Businaro, Monselice la Rocca, il Castello; A. Rigon, Monselice nei secoli; M. Carazzolo, Più forte della paura; Celso Carturan, ” Storia di Monselice “, dattiloscritto ( 3400 pagine ) conservato presso la Biblioteca.

Enrico Pizzo, classe ’74, residente sui Colli Euganei. Appassionato di storia veneta e storia dei sistemi monetari preunitari.

Enrico Pizzo

Enrico Pizzo, classe ’74, residente sui Colli Euganei. Appassionato di storia veneta e storia dei sistemi monetari preunitari.

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