Quota 90

“Non infliggerò mai a questo meraviglioso popolo italiano, che da quattro anni lavora come un asino e soffre come un santo, l’onta morale e la catastrofe economica del fallimento della Lira”. Queste parole vennero pronunciate a Pesaro, il 18 agosto del 1926, durante un discorso dall’allora capo del governo Benito Mussolini. Nella versione pubblicata dai giornali “lavora come un asino e soffre come un santo” fu modificato in un, più morbido “lavora con ascetica disciplina ed è pronto ad altre più gravi rinunce”, ma senza alterare la sostanza del messaggio, Mussolini era preoccupato per l’attacco speculativo che stava subendo la Lira Italiana. Indaghiamo in questo articolo sulle condizioni e gli sviluppo della rivalutazione della lira voluta dal governo fascista e passata alla storia come “Quota 90”.

Il tasso di cambio contro la Sterlina, che nel 1921 si era attestato su una media annuale di 91,19 , era salito nel 1925 ad una media annua di 121,15 e non dava segno di volersi fermare, avrebbe raggiunto un valore di oltre 148 dopo soli 3 mesi. Non si trattava solo di una astratta questione finanziaria, in una nazione come l’Italia del 1926 che importava dall’estero circa 1/3 del suo fabbisogno di grano una simile svalutazione non poteva causare che un diffuso malcontento, a causa dell’aumento del costo della vita. Per esempio, il prezzo del pane, alimento di cui si consumavano in media 168 kg/pro-capite, nel 1926 aveva preso ad aumentare più di quanto facessero le retribuzioni.

Il governo scelse di affrontare il problema in due modi, attraverso una rivalutazione della Lira, attuata materialmente dal Ministro delle Finanze, e presidente di Confindustria, Giuseppe Volpi Conte di Misurata, e tramite l’aumento della produzione di grano, grazie al miglioramento delle tecniche agricole e la bonifica integrale del territorio nazionale. Per la fine del 1927 la rivalutazione della Lira a “Quota 90” era realtà, ma non tutti i settori del mondo produttivo italiano erano concordi sull’efficacia di questo provvedimento.

Già il 20 dicembre del 1926 i rappresentanti dell’industria cotoniera, dopo aver rispettosamente ricordato come il tessile coi suoi oltre 600000 operai, senza considerare l’indotto, costituiva la prima realtà industriale della penisola, facevano notare che il rafforzamento della Lira li penalizzata nel momento di vendere all’estero, al punto che, senza un qualche tipo di intervento, rischiavano di dover o tagliare i salari o interrompere l’attività lavorativa nel febbraio 1927. È verosimile che anche lo stesso Mussolini si rendesse conto dei non brillanti risultati del suo provvedimento tanto che il 26 aprile 1927 scriveva a Volpi sulla necessità di intervenire per evitare di “crepare per troppa salute”. E appunto per evitare il verificarsi di questa deprecabile condizione che il regime adottò una serie di provvedimenti, tra cui la concessione di sgravi fiscali per 1200 milioni di lire all’industria tessile e il primo, 5 maggio 1927, di una serie di tagli agli stipendi.

Evidentemente Mussolini si rendeva conto dell’impopolarità di una decisione del genere e per “lubrificarne” l’accettazione da parte degli italiani imponeva: “una misura «coattiva» la cui urgenza ed equità è oramai manifesta: quella cioè che fisserà al quadruplo dell’anteguerra il limite massimo di aumento dei fitti nelle case costruite prima del 1920 e che sono in Italia l’enorme maggioranza”. Non si trattava di riduzioni simboliche, infatti in una lettera a Vittorio Emanuele III del 22 luglio 1927 scriveva: “Gli operai e i contadini, nonché gli impiegati dello stato hanno accettato le falcidie dei loro stipendi e salari, con perfetta disciplina. Calcolando a tre milioni gli operai dell’industria, come dal discorso dell’On. Bermi, la riduzione dei salari si è aggirata fra 2 e 2,50 lire quotidiane, pari a 7 milioni sul totale giornaliero dei salari. Moltiplicato per 300 giornate lavorative, risulta che l’industria italiana è stata alleviata di una somma che si aggira sui due miliardi, cioè la sesta parte del totale dei salari pagati in un anno dall’industria italiana. Altrettanto dicasi per gli agricoltori. Non si può dunque negare che gli operai e i contadini hanno pagato il loro contributo alla rivalutazione. I più riottosi a pagare questo cambiamento sono stati i commercianti e padroni di casa. I primi finiranno sulle liste nere, gli ultimi nei processi delle preture”.

Le vicissitudini dell’economia italiana non erano ancora finite, il 21 settembre 1931, pur mantenendo immutate le condizioni per gli impegni già in essere, il governo britannico, col “Gold Standard Amendment Act”, sospendeva l’obbligo della Banca d’Inghilterra di cambiare a vista i biglietti in oro. Concretamente la Sterlina veniva lasciata libera di fluttuare sul mercato, fluttuazione che si presentò come una svalutazione pari ad un buon 40%. Effetto collaterale di ciò fu il rafforzamento contro la valuta inglese di quelle basate sul “Gold Standard”, tra cui anche la Lira Italiana passata da un tasso di cambio, media annuale, di 86,19 nel 1931 a 58,93 nel 1934.

Un simile rafforzamento della Lira, già provata dalla decisione mussoliniana del 1926 di portare il cambio a “Quota 90” ebbe effetti letali sull’economia italiana con un crollo brutale delle esportazioni, calate nel 1934 al 27% del valore del 1931. Nonostante ciò Mussolini continuò a rifiutare l’ipotesi di un abbandono, o quantomeno una modifica, della parità aurea scegliendo addirittura di avventurarsi in una anacronistica, e dispendiosa, avventura coloniale in Etiopia. Il 9 maggio 1936 Mussolini annunciava: “Un grande evento si compie: viene suggellato il destino dell’Etiopia, oggi, 9 maggio, quattordicesimo anno dell’era fascista. L’Italia ha finalmente il suo Impero!”. Dimenticava, però, di specificare che nel nuovo impero le esportazioni di filati di cotone, olio d’oliva e seta erano calate rispettivamente del 84, 81 e 94,% rispetto al valore del 1925…

Neppure la proclamazione di un impero riuscì a nascondere l’evidenza di un economia allo sfascio e il 5 ottobre 1936 Mussolini fu costretto a svalutare la Lira del 41%. L’intervento, per quanto criminalmente tardivo e sottodimensionato rispetto a quelle che erano le reali necessità italiane, riuscì comunque a dare un minimo di respiro all’economia della penisola, benefici che, ahimè, sarebbero stati distrutti nel 1939…

 

 

 

 

 

Autore articolo: Enrico Pizzo, classe ’74, residente sui Colli Euganei. Appassionato di storia veneta e storia dei sistemi monetari preunitari.

Le tabelle sono state realizzate da Enrico Pizzo

Bibliografia: Benedetto Barberi, “Cambio e parità economica della Lira”; F. Cotula e L. Spaventa, “La politica monetaria tra le 2 guerre 1919-1935”; Federico, Natoli, Tattara, Vasta, “Il commercio estero Italiano 1862-1950”; Guido M. Rey, “I conti economici dell’Italia”; Maria Carazzolo, “Più forte della paura”; Vittorio Piva, “Manuale di Metrologia delle Tre Venezie e della Lombardia”.

Enrico Pizzo

Enrico Pizzo, classe ’74, residente sui Colli Euganei. Appassionato di storia veneta e storia dei sistemi monetari preunitari.

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