Sguardo sulle manifatture dello Stato Pontificio

Sin dal Cinquecento il sistema di censimento era legato alle “visite” di funzionari incaricati dell’osservazione diretta delle realtà locali, tuttavia un’analisi complessiva della condizioni dell’economia dello Stato Pontificio e dell’industria manifatturiera romana al momento dell’Unità risulta di difficile stesura perché mancano ragguagli e censimenti attendibili.

Nel 1826 si contavano a Roma 394 fabbriche nelle quali trovavano impiego 6310 lavoratori, inoltre si stimavano essere presenti nel resto dello Stato Pontificio circa il quadruplo degli stabilimenti industriali (E. Castreca Brunetti, Cenni economico-statistici sullo Stato Pontificio). Tuttavia questo dato, chissà quanto veritiero, ci dice poco sulle reali capacità produttive delle manifatture romane. L’inglese John Bowring nel suo viaggio in Italia poteva, ad esempio, testimoniare d’aver visitato “alcune delle industrie laniere” senza avervi trovato “nessuna apprezzabile scoperta: la filatura – che in alcuni casi è a mano, in altri è meccanizzata – è molto arretrata rispetto agli universali progressi attuati in Inghilterra, Belgio, Prussia o Francia; i telai, identici a quelli che erano generalmente impiegati nel quattordicesimo secolo, sono di ben poco migliori rispetto a quelli usati dagli indiani del Dekan”. Eppure proprio l’industria tessile pontificia era il settore che Angelo Galli, computista della Camera Apostolica, riteneva più avanzato. Nel suo studio apprendiamo che le più grandi fabbriche di lana si trovavano Roma, a Spoleto, a Matelica, ad Alatri, a Perugia, a Norcia, ed alla Pergola; fabbriche per la lavorazione della seta erano a Roma, Bologna, Perugia e Camerino, mentre erano in decadenza le lavorazioni di tessuti di veli, taffetà, damaschi e velluti. I migliori opifici per la concia di suola e pelli si trovavano a Roma, a Bologna, a Fabriano (“ove primeggiano quelle de’signori Fornari e Mercurelli”), a Pesaro, Sinigaglia, Cagli, Caldarola e Fuligno ma esse “non bastano al bisogno”; fabbriche dei guanti, “abbenchè buone, non vincono in concorrenza quelle di Napoli”. Scrisse Casteca Brunetti nel suo commento del 1842: “In Roma si fanno buone coperte dette valenzane: v’è ancora una recente fabbrica di sottovesti a maglia ad uso d’Inghilterra. Nell’ospizio di s. Michele si lavorano arazzi in figura ed in ornato (unica fabbrica d’Italia). Alla Pergola ed a Fossombrone si fabbricano tappeti di lana a spina, ed a Bologna dei tappeti fini: quelli ancora di Alatri sono buoni. I premi, fin dal 1835 accordati alla fabbricazione de’drappi di lana, hanno fatto sì che la quantità dei tessuti è quasi raddoppiata. In alcuni luoghi si fanno feltri: i migliori sono quelli di Fabriano che si antepongono ai genovesi: se ne desidererebbero di tiglia più fina”. Probabilmente agli ufficiali pontifici mancavano elementi di comparazione con le tessiture degli altri stati della Penisola e soprattutto con quelle europee.

 

La produzione di pergamene a Roma, Fuligno e Fabriano, è segnata come l’unica capace di proiettarsi fuori dai confini, sino in Lombardia; la realizzazione della pasta era cresciuta “in modo che non v’è più la passività che si aveva per la introduzione delle paste di Napoli e di Genova”; si segnalavano poi la fabbrica di amido del marchese Lodovico Potenziani a Rieti, quelle di birra a Roma ed a Bologna, quelle di spirito nella provincia di Marittima e Campagna e di Bologna. Ovunque esistevano fabbriche di materiali laterizi, ma di bassa qualità; il piombo e il rame si importavano. Nessuna miniera era in attività ma la fusione del ferro nei tre forni di Conca, Bracciano e Canino dava 50.000 libbre al giorno. Esistevano poi quattordici ferriere, tutte poste nella Comarca e nella provincia di Viterbo.

A distanza di venti anni la situazione nella capitale era stagnante. “Se Roma, la Città eterna, possiede un bel numero di manifatture, e se alcune di queste non rinvengonsi in altre grandi Metropoli d’Europa, è però ben lungi dal poter gareggiare con quelle…”. Le cause di ciò? A detta di Nigrisoli erano l’assoluta prevalenza delle arti e degli studi teologici e legali su quelli economici e la presenza di un’aristocrazia ancora legata al latifondo.

Il tessuto industriale restava costituito esclusivamente da attivià di piccole dimensioni, prevalentemente a carattere artigianale, con manodopera non qualificata perlopiù proveniente da conservatori, carceri ed ospizi, forza motrice di natura idrica e prodotti di scarsa qualità. Tali iniziative sfruttavano risorse locali, come nel caso dell’industria laniera alimentata dall’allevamento ovino, ed erano chiuse ai mercati zonali dalla presenza di una rigida cinta daziaria. Si trattava di una industria carente di capitali stranieri. Nel 1857, il Nigrisoli segnalava la presenza a Roma di 39 fabbriche tessili, in gran parte localizzate a Trastevere, che davano lavoro a circa tremila addetti. Segnala le attività dell’Ospizio Apostolico di San Michele a Ripa, un lanificio in cui lavoravano circa mille persone con cinquanta telai, di cui la metà sparsi però nei diversi rioni, non solo lana locale ma anche seta e feltro, e del setificio  di Giulio Sabbatini in cui lavoravano centottanta operai, in gran parte donne. Ben evidenziava però che “codeste industrie, che producono un vistoso guadagno, sarebbero capaci di maggiore svolgimento, e di un più alto grado di perfezione, se venissero impiegate le macchine a vapore, i telai alla Jacquard, l’elettrico del Bonelli, ed altri mezzi di moderna applicazione”. L’industria meccanica era scarsa, eccezion fatta per la fonderia Mazzocchi in Vaticano (M. Marcelli, Le industrie romane dall’occupazione francese all’avvento del fascismo).

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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