Da Umberto I a Vittorio Emanuele III

Umberto I, già sfuggito a due attentati, quelli di Giovanni Passanante a Napoli nel 1878 e di Pietro Acciarito a Roma nel 1897, cadde sotto le pallottole sparate dal terzo, Gaetano Bresci, il 29 luglio del 1900.

Il 21 luglio era giunto a Monza con sua moglie. Intendeva fermarsi qui per un po’ prima di recarsi in Val d’Aosta. Il 29 Umberto I gli venne presentata una richiesta, la società sportiva “Forti e Liberi” lo pregava di onorare con la sua presenza la cerimonia di chiusura del concorso ginnico. Il re si mostrò disponibile, accettò e confermò la sua presenza.

Il caldo quel giorno lo spinse a chiedere una carrozza scoperta ed evitò anche di indossare, sotto il panciotto, la maglia d’acciaio a protezione contro possibili attentati.

Tra la folla lo attendeva però il suo assassino. Bresci serbava in tasca un revolver a cinque colpi. Era partito dagli Stati Uniti il 17 maggio ed era giunto a Monza da due giorni. S’era informato sulle abitudini del re, sui suoi orari, sui suoi itinerari preferiti ed ora era pronto ad ammazzarlo. Le notizie milanesi del 1898, i tumulti repressi nel sangue da Bava Beccaris, l’avevano riempito di sdegno e da allora non aveva avuto che un pensiero: tornare in Italia ed uccidere il re.

Il sovrano s’intrattenne all’evento per circa un’ora, decise di andarsene verso le 22 di sera avviandosi alla carrozza mentre la folla l’applaudiva tra le note di una fanfara militare. C’era gran confusione e nella confusione Bresci si fece largo. Umberto I, salito in carrozza, continuava a salutare e fu quello il momento in cui l’attentatore scaricò il suo revolver colpendo il re ad una spalla, al polmone ed al cuore.

Ancora cosciente, Umberto I ordinò di proseguire ma qualche attimo dopo esalò l’ultimo respiro.

Vittorio Emanuele, Principe di Napoli, aveva all’epoca dei fatti trentaquattro anni e si trovava lontano. Sposato da poco navigava sereno con la moglie Elena sul panfilo “Yela” tra le isole greche. La sera stessa del delitto sua madre, la regina Margherita, aveva mandato un telegramma chiaro a suo fratello Tommaso di Savoia, Duca di Genova, grande ammiraglio della flotta ad Ancona: “Umberto assassinato. Non ho forza di aggiungere altro. Ti prego andare incontro a Vittorio e annunciargli la terribile notizia. Vittorio arriverà forse in giornata a Reggio”.

Il Duca, colto dallo sbigottimento, inviò una torpediniera sull’ipotetica rotta del nipote; nel frattempo il 31 luglio il Vittorio Emanuele, in vista della costa calabra, ricevette segnali da Capo d’Armi che indicavano suo padre gravemente ammalato. Vittorio Emanuele pianifica il rientro ma più tardi la torpediniera mandata da Tommaso di Savoia raggiunse lo “Yela” con la bandiera a mezz’asta. Fu così che il Principe di Napoli seppe la realtà delle cose. Era lui ora il nuovo re.

La sua figura sembrava assai lontana da quella degli altri sovrani di Casa Savoia. Nato dal matrimonio tra due cugini, non era alto come Carlo Alberto, non aveva l’imponenza di suo padre, non appariva dinamico come suo nonno, non amava il teatro, né gli spettacoli, né gli eventi pubblici, ma, schivo e riflessivo, era colto, aveva studiato alla Scuola militare Nunziatella di Napoli, aveva viaggiato all’estero a lungo, adorava frequentare il mondo scientifico dell’epoca, era esperto di numismatica e geografia, parlava quattro lingue, oltre il piemontese ed il napoletano.

La sua diversità si mostrò subito: tra i suoi primi atti concesse l’amnistia per i reati di stampa e per i delitti contro la libertà di lavoro, inoltre cancellò la metà delle pene irrogate per i moti del 1898.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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