La Guerra di Chioggia
La Guerra di Chioggia divampò tra il 1378 ed il 1381 tra Genova e Venezia.
Il commercio col Levante era fonte di grandi ricchezze per Genova e Venezia. Le due città avevano stabilito lungo le rotte i loro empori, i loro magazzini, spesso vere e proprie cittadelle munite di guarnigioni e rette da governatori: Venezia controllava l’isola di Tenedo, scalo strategico per i traffici provenienti dal Bosforo e dal Mar Nero; Genova aveva creato una rete di spacci e di colonie in grado di competere con il commercio veneziano come quella di Scio. Non poteva che nascere rivalità tra le due repubbliche.
Nel 1369 era morto Pietro di Lusignano, re di Cipro. Il trono fu occupato dal quattordicenne Pietro II, suo figlio, ma proprio durante la cerimonia d’incoronazione, tenutasi a Famagosta nel 1372, scoppiò una contesa tra il Bailo di Venezia, Marino Malipiero, e Paganino Doria, Console di Genova. Sorsero due fazioni che vennero alle armi e, nelle sale del palazzo reale, i veneziani uccisero molti genovesi ed altri ne misero in fuga nelle strade della città.
Quando la notizia raggiunse Genova, si armarono sette galere che, nel marzo del 1373, sotto il comando di Damiano Cattaneo, raggiunsero Cipro attaccandola e devastandola. Più tardi sopraggiunsero altre trentasei galere genovesi, accompagnate da numerose navi da carico, comandate da Pietro da Campofregoso, fratello del Doge, che assalirono Famagosta facendo strage di ciprioti e veneziani. Al giovane re fu imposto un trattato gravosissimo che prevedeva il pagamento alla Repubblica di Genova di un tributo annuale pari a 40.000 fiorini e di una indennità di guerra di oltre due milioni di fiorini d’oro. Genova, in più, tenne le sue guarnigioni sull’isola, acquisendone di fatti il controllo.
Venezia tollerò il fatto solo perché era in guerra con Padova, ma intanto a Costantinopoli i genovesi continuavano a lavorare per l’affermazione della Repubblica di San Giorgio sui commerci nel Levante e, nel 1376, Andronico, figlio di Giovanni V Paleologo, condannato per una cospirazione, fu da loro aiutato a scappare dalle prigioni in cambio della promessa dell’isola di Tenedo. Il giovane si proclamò nuovo imperatore e fece arrestare il padre. Il governatore di Tenedo, però, fedele al deposto imperatore, si oppose alla cessione dell’isola ai genovesi che si erano presentati in quelle acque con le lettere di Andronico. Tornati a Costantinopoli, essi spinsero Andronico ad imprigionare il Bailo di Venezia e tutti i mercanti veneti residenti nella città.
Nel 1378, però, Giovanni V Paleologo, aiutato dai turchi, riuscì a rioccupare il trono, invertendo le politiche anti-veneziane adottate da suo figlio che, intanto, si rifugiava nella Torre di Galata, nella colonia genovese di Costantinopoli.
In breve tempo si definirono due schieramenti contrapposti. Genova richiamò i suoi fuoriusciti, s’alleò coi rivali della Serenissima, ovvero il Duca d’Austria, che premeva sui territori orientali di Venezia, Ludovico d’Ungheria, che controllava la Dalmazia, ed il signore di Padova, Francesco da Carrara, che agognava Mestre. I veneziani invece costituirono un’alleanza con Bernabò Visconti, signore di Milano e vecchio titolare di Genova e col re di Cipro.
La flotta veneta era guidata da Vettor Pisano e Carlo Zeno ed era forte di 40 galee. Pisano, Capitano Generale da Mar, riuscì a disfare un’armata di dieci galee genovesi presso Anzio, poi si diresse a Famagosta, cinta d’assedio da Carlo Zeno. Quando però Luciano Doria passò con le sue navi nell’Adriatico, i veneziani iniziarono a combattere non più per il controllo dei mari ma per la conservazione delle proprie mura e Vettor Pisano dovette precipitarsi nelle acque dalmate.
Prima però diede alle fiamme Focea e i quartieri genovesi di Chio e Mitilene, conquistando Cattaro e Sebenico per poi fermarsi a Pola. Qui, dopo l’inverno, si accese un’aspra battaglia. La vittoria sembrava irridere a Pisano ma quando il Doria, levata la visiera dell’elmo, fu trafitto in volto dalla lancia di Donato Zeno e cadde morto, i genovesi s’infiammarono d’ardore al punto tale che riuscirono a sopraffare l’armata veneta e ad aver ragione della battaglia. La disfatta fu pesante, Venezia lasciò sul campo settecento morti, duemilaquattrocento prigionieri e quindici galee in mano ai genovesi che trucidarono ottocento nemici. Solo sette navi, capitanate dal Pisani, riuscirono a porsi in salvo e a tornare a Venezia.
La versa sfida era sul mare. Sulla terraferma i mercenari viscontei furono allontanati da Genova pagando grandi somme, e armate di Francesco Carrara e d’Ungheria, senza grandi risultati, provavano ad avanzare nei possedimenti veneziani. La Repubblica di San Giorgio pensò di portare l’attacco finale. La flotta genovese, passata ora a Pietro Doria, si portò in Dalmazia con quindici galee, saccheggiò Umago, Grado e Caorle e si unì, nel porto di Zara, a quella che aveva sconfitto i veneziani. Con questa armata Pietro Doria tentò di entrare nel porto di Venezia, ma Giovanni Barbarigo lo tenne chiuso con triplici catene, così i genovesi si spostarono a depredare Pellestrina e poi all’assedio di Chioggia.
La città fu espugnata dopo undici giorni senza eccessive complicazioni, grazie anche all’intervento delle truppe di Francesco da Carrara, e Venezia fu colta dal terrore d’una fine vicina perché ora la laguna stafa finendo interamente nelle mani genovesi e gli ungheresi assediavano Treviso, così s’affrettò a mandare i suoi ambasciatori al Doria per chiedere la pace. L’ammiraglio genovese però non propose loro condizioni accettabili, soprattutto apparve umiliante la richiesta d’imbrigliare i celebri cavalli di bronzo della Basilica di San Marco, così Venezia tornò a pensare la guerra come unica soluzione.
La Repubblica di San Marco sbarrò i canali, fortificò le isole lagunari così come il porto del lido, unico accesso al mare rimasto ancora libero, e varò quaranta nuove galere, mentre il borgo di Poveglia, sulla direttrice d’avanzata genovese, fu sgomberato per lasciar posto agli apprestamenti difensivi e a batterie d’artiglieria. La flotta fu ridata a Vettor Pisano, liberato dalle prigioni cui era stato condannato dopo la disfatta di Pola, e questi puntò tutto su piccole imbarcazioni capaci di navigare nei canali in cui le navi genovesi non potevano inoltrarsi. Il nemico si allontanò allora da Venezia e rientrò a Chioggia dove la Serenissima spedì la sua armata. Ad essa si unì quella di Carlo Zeno, di ritorno dal Levante, con quindici galee e oltre quattrocentomila ducati predati ai genovesi.
Nella notte dell’1 gennaio 1380 i veneziani affondarono due grosse navi davanti al porto di Chioggia per impedire alle navi genovesi di uscirne o ricevere viveri ed avviarono un tremendo tiro d’artiglieria cui i genovesi resistettero con gran sacrificio. Gli assediati, disfacendo persino i tetti di Chioggia, recuperarono legname e costruirono cento piccole imbarcazioni per provare ad uscire dal porto. Il doge inviò in loro soccorso Gaspare Spinola e trentanove galee affidate a Matteo Maruffo, che giunsero a Chioggia nei primi di luglio, dopo aver catturato le navi veneziane di Taddeo Giustiniani sulle coste pugliesi, ma nelle acque di Chioggia non riuscirono a forzare il blocco nemico. Così i veneziani ottennero la resa facendo 4000 prigionieri.
Nell’assedio morì Pietro Doria, colpito da una bombarda. Quest’arma fu una novità per i genovesi e decretò i successi dei veneziani.
Dopo la presa di Chioggia da parte dei veneziani le ostilità in Adriatico continuarono ancora. Gaspare Spinola espugnò Trieste e la concesse al Patriarca d’Aquileia, alleato di Genova, poi prese Capo d’Istria e dette fuoco a Pola. Il Maruffo, nel golfo d’Adria, fece altrettanto sfuggendo alla morsa di Vettor Pisano che morì. Sulla terraferma invece Castelfranco, Asolo e Noale caddero nelle mani di Francesco da Carrara e, pur di non lasciare a lui anche Treviso, Venezia preferì cedere la città a Leopoldo d’Austria.
La contesa ebbe fine con la Pace di Torino del 1381.
Amedeo VI di Savoia, detto il Conte Verde, riuscì a far da mediatore tra le parti ed a portarle alla pace. Le repubbliche come primo atto rilasciarono i propri prigionieri liberi. Dei 4000 prigionieri fatti a Chioggia, ben 2500 morirono nelle prigioni di Venezia, i sopravvissuti uscirono nudi e smunti, ma furono vestiti dalla magnanimità delle donne veneziane. La Serenissima diroccò il castello di Tenedo e consegnò l’isola al Conte di Savoia; al re d’Ungheria restò la Dalmazia e veniva devoluto un tributo annuo di settemila ducati; Treviso rimase al Duca d’Austria che però la vendette, con Ceneda, Feltre e Belluno a Francesco I da Carrara che, dal canto suo, dovette restituire tutti i territori occupati, ma ottenne il diritto a costruire fortificazioni lungo i confini con la Serenissima; genovesi e veneziani pattuirono poi di non navigare per due anni a Costantinopoli e Genova ottené l’allontanamento di Venezia da Cipro.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: L. A. Casati, La guerra di Chioggia e la pace di Torino; D. Chinazzi, Cronaca della Guerra di Chioggia; D. Bertolotti, Viaggio nella Liguria marittima