Il ritorno dei nostri prigionieri

Traiamo da Il Secolo Illustrato del dicembre 1918 un articolo di Lina Poretto De Stefano sull’arrivo dei prigionieri italiani a Modena, “stanchi, laceri, sofferenti…”.

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Modena, 18 novembre

Coi treni dal Veneto giungono in questi giorni a Modena i nostri prigionieri rimpatriati. Stanchi, laceri, sofferenti, i fratelli che hanno conosciuta la durezza del nemico; che vengono da lontano, più lontano di quanto noi possiamo imaginare poi che essi hanno misurata la distanza sul metro della loro lenta sofferenza, hanno negli occhi, che ricordano quelli dei convalescenti deboli, ma felici, la gioia del ritorno, non turbata dai nuovi disagi.
Da Modena altri treni suddividono i ritornati nei vari paesi della provincia, e ormai ogni borgata ne accoglie molti.
A Carpi ne arrivarono in due giorni circa novemila, con grande preoccupazione delle autorità del luogo che devono ben lavorare e chiedere sacrifici alla popolazione per riuscire a trovare in un comune di venticinquemila abitanti, ricovero per novemila uomini.
E lo spettacolo che noi vediamo nel Modenese è possibile trovarlo in ogni strada della nostra terra, ogni via d’Italia sa oggi la gioia e la tristezza di questi ritorni: lunghe colonne di soldati laceri che hanno negli occhi un profondo desiderio di riposante tranquillità.
Ma certo in brevi ore saranno tutti a posto, come a Formigine piccolo comune, che dista da Modena circa 11 chilometri hanno prontamente trovato asilo molte centurie di rimpatriati. Vi ci siamo recati per avere un’idea dello stato fisico e morale dei fratelli che tornano.
Lungo lo stradale che conduce al paese ne incontriamo molti; non tutti hanno lo sguardo smarrito, non tutti appaiono sofferenti, ma tutti sono in miserevoli condizioni di vestiario. E la prima neve di questo novembre vestito da gennaio è condotta ai piedi stanchi e tumidi per le lunghe marcie, a traverso a larghi fori delle scarpe sconquassate; e le lacere giubbe, e i pantaloni sbrindellati certo non bastano a riparare dal gelo le carni che tremano immediatamente sotto la ruvidezza del vestito, mancando spesso la biancheria, le maglie. Le mani chiedono protezione e calore alle tasche, ma la tela che le formava non si ricorda ormai più dei giorni lieti, in cui una cucitura amorevolmente l’avvinceva al panno dei calzoni, sicchè per i poveri infreddoliti oggi tasca vuol dire buco. Ricucire? Ma in Austria da molto tempo il filo costava prezzi favolosi ed era introvabile.
Vediamo un cappello di paglia che ripara dalla neve la testa di un alpino, e un bersagliere porta fieramente, certo in merito alla lunga consuetudine, un cappello duro che ha subito la stessa deformazione di quello di un uomo politico, il Lobia, circa settant’anni or sono.
Giungiamo a Formigine mentre una sosta della neve fa uscire i rimpatriati dai rifugi nei cascinali, e poi che proprio oggi essi hanno ottenuto il cambio delle corone di discutibile valore, in moneta italiana, vanno all’assalto delle osterie, ove c’è sempre sufficiente vino per inebbriare la debolezza di gente da lungo tempo quasi digiuna, mentre pur troppo mancano i viveri che sarebbero tanto benefici a chi ha per lungo tempo sofferto per la scarsità e la cattiva qualità del cibo, Quasi tutti i soldati che tornano hanno percorso a piedi centinaia di chilometri per giungere alle porte della Patria dalla quale la grande maggioranza è stata allontanata durante sfortunate vicende di gloriosi combattimenti. Questa grande maggioranza ama la Patria come quelli che combatterono con più fortuna, l’ama forse con maggiore tenerezza perchè ne ha ascoltata la voce nel richiamo della nostalgia, perchè ha imparato a più venerarla sentendola nominare senza riverenza, con derisione del nemico.
“La notizia della vittoria italiana giunse tanto improvvisa” racconta un alpino “che lo stupore fu quasi più forte della gioia. Ci trovammo inaspettatamente liberi, in un paese di gente che non ci vedeva più, che non vedeva altro che la sua sventura e la sua fame”.
La strada del ritorno fu dunque per i nostri disgraziati fratelli senza pane. Quelli che avevano denaro austriaco hanno sostato nelle osterie pagando un bicchiere di vino e due fette di salame rancido, o pure una zuppa di verdura scondita da 19 a 20 corone, e stanchi, affamati, si sono affacciati alle soglie della patria col sorriso di chi teme di non giungere gradito, e si raccomanda. Essi sanno d’essere i figliuoli vinti, di una madre vincitrice. Noi che fummo buoni col nemico, che abbiamo dato largamente cibo e abiti ai prigionieri dell’Austria, dobbiamo correre incontro ai nostri che tornano, preparare loro il letto del riposo, come la madre che avendo due figli e due letti serba quello più tepido pel ritorno di colui che la bufera ha trascinato lontano, meno forte o meno fortunato dell’altro che dalla tempesta è riuscito vittorioso, salvando la contrastata imbarcazione.
Quelli che tornano hanno molte pene da raccontare: un pane, cioè quell’orribile pastone color pece che formava il principale nutrimento, non solo dei “oli prigionieri, ma di tutta la popolazione delle terre invase, si vendeva da dieci a quindici corone: “Mangiavamo carote e cavoli cotti, sconditi” narra un fantaccino, e conclude sorridendo: “Trattavano il nostro stomaco come quello dei cavalli”.
“È vero che oltre la privazione del cibo avete subito dei maltrattamenti?” chiediamo al fantaccino sorridente e sparuto. Il volto di lui si atteggia a un’espressione di durezza. Non risponde subito. Ma poco dopo, come continuando un discorso iniziato fra sè, dice: “Però all’amorosa di un comandante tedesco che in un paesetto vicino a Vittorio Veneto ha incitato il suo amico a maltrattare i nostri soldati prigionieri e i borghesi, l’abbiamo fatta bella in questi giorni. Fu rondotta in giro per il paese fra la folla che l’insultava e la faceva bersaglio ai più svariati proiettili”.
Ma i proiettili vendicatori, abbiamo ancora saputo dal soldatino, erano a base di torsi di cavoli e altra verdura andata a male. Certo la graziosa innamorata del comandante austriaco avrebbe, in un simile caso, consigliato al suo amico sistemi di rappresaglia più crudeli.
Lasciando Formigine, a poca distanza dal paese incontriamo un uomo anziano con un giovanetto. L’uomo anziano che ha un onesto aspetto di lavoratore ci ferma quasi timidamente: “Scusino signori, i prigionieri rimpatriati sono qui, è vero? E la cinquantesima centuria in quale locale si trova?”. Quell’uomo viene da un lontano paese del Piemonte in cerca del suo ragazzo, ed ora presso a vederlo, si accorge che la gioia rassomiglia stranamente, nel modo come morde il cuore, all’angoscia. Ed è un numero scritto con molti zeri l’esponente delle famiglie che aspettano, nelle case ove una tenerezza materna ha preparato il letto più tepido pel ritorno dei figliuoli prigionieri.
Bisognerà rimediare in fretta, per quanto lo può consentire il problema complicato del rimpatrio di tanti uomini, alla miseria dei loro indumenti, alle necessarie interrogazioni per poi mandarli a vedere le loro famiglie che tutte, quando vennero a mancare le notizie dei loro combattenti, sentirono tremare nel silenzio insolito l’angoscia della morte. Ogni prigioniero che torna è per le madri, le spose, le sorelle e i bimbi un redivivo.

 

 

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