Francisco de Quevedo, il poeta cospiratore

Zoppo, con i piedi deformi ed una grave miopia, ma arguto, intelligente, sensibile alla letteratura, Francisco de Quevedo fu uno dei più grandi spiriti del Siglo de Oro. Nacque a Madrid nel settembre del 1580, studiò teologia, tenne scambi epistolari con gli umanisti dell’Europa del tempo, si interessò al pensiero stoico, fu autore di alti componimenti poetici.
Non mancò di punzecchiare la Spagna di Filippo III, né di intraprendere aspri duelli d’inchiostro con letterati come Góngora. Fu amico di Lope de Vega e Miguel de Cervantes, nemico di Juan Pérez de Montalbán e Juan Ruiz de Alarcón. E tra i suoi più cari compagni c’era anche Pedro Téllez-Girón, terzo duca di Osuna. Entrambi avevano studiavato ad Alcalá, entrambi amavano feste ed avventure. Il duca però andò a combattere nelle Fiandre per poi ritrovare Quevedo a Madrid, ormai poeta riconosciuto.
Nel 1612 insieme si trasferirono in Italia perchè Pedro Téllez-Girón divenne viceré prima di Sicilia, poi di Napoli, e non volle separarsi dall’amico (che nel frattempo, stando alla ricostruzione del suo biografo, il pugliese Paolo Antonio di Tarsia, aveva ucciso un uomo che aveva schiaffeggiato in pubblico una signora nella Chiesa di San Martino a Madrid). All’ombra del Vesuvio, Quevedo animò l’Accademia degli Oziosi, il cuore culturale del regno, con ritrovo nel chiostro di San Domenico. Ufficialmente doveva occuparsi delle finanze di Napoli e invece finì a fare da spia nella Repubblica di Venezia o almeno così pare. Questo servizio gli valse l’abito di Santiago, quello con cui lo vediamo ritratto nel dipinto di Juan van der Hamen.
Nei disegni del viceré, che certi progetti se li pagò coi suoi soldi, Venezia sarebbe dovuta essere conquistata con una congiura di elementi filo-spagnoli, e finire alleata di Madrid contro i turchi. Ciò contrastava col momento politico. Filippo III, infatti, aveva da poco firmato una pace coi veneziani, dopo averli avuti a lungo nemici. Il duca, con la sua flotta, minò questo nuovo equilibrio nell’Adriatico, Venezia rispose con la guerra di corsa, Madrid invano spedì a Napoli l’ordine di portare nel Tirreno la flotta.
Tutto conflagrò la mattina del 19 maggio 1618. I canali di Venezia apparvero pieni di cadaveri, in piazza altra gente veniva impiccata. Per tutta la giornata si scatenò una cacccia agli spagnoli. La congiura, appoggiata da spie dell’ambasciatore spagnolo, il marchese de Bedmar, e da alcuni nobili locali, finì in un bagno di sangue. Molti dei cospiratori furono uccisi nelle loro stesse case. Trecento persone, alla fine, persero la vita. Una folla circondò il del marchese de Bedmar, che per poco riuscì a fuggire al linciaggio, ma dovette consegnarsi alle autorità. Quevedo ebbe più fortuna e riuscì a scappare vestito da mendicante, servendosi di un ottimo accento veneto.
I veneziani furono così frustrati dalla sua fuga che bruciarono pubblicamente la sua immagine, insieme a quella del duca di Osuna, in Piazza San Marco. Furon forse loro a diffondere l’idea che il viceré di Napoli stesse lavorando ad affrancarsi da Madrid e farsi re.
La faccenda è ancora oggi avvolta in una fitta nebbia. Non tutto appare chiaro, ma con la caduta in disgrazia di Pedro Téllez-Girón, anche Quevedo ebbe qualche problema. Finì esiliato a Torre de Juan Abad, feudo di sua madre. Dovette però scontrarsi coi suoi vassalli che non gli riconobbero legittimità se non dopo la morte. Più tardi, Filippo IV lo chiamò a corte e lo riabilitò.
Quevedo accompagnò il giovane re nei viaggi in Andalusia e in Aragona, infine divenne suo segretario, ma la fortuna durò poco. Maturati aspri contrasti col Conte-Duca de Olivares, nel 1639 i suoi libri furono sequestrati e lui condotto di forza al convento di San Marco a León. Non ci fu alcun processo, anche se l’accusa di tradimento si scoprì falsa.
Abbandonò la reclusione nel giugno del 1643, ormai gravemente malato. Morì due anni dopo, nel Convento dei padri domenicani di Villanueva de los Infantes, l’8 settembre 1645.
Fu sempre alla ricerca dai valori persi, sempre severo e strenuo difensore dell’egemonia spagnola in Italia, nel Mediterraneo, nel mondo, in un’epoca di declino del potere politico castigliano. Non fu capito, nè andò meglio al suo amico, il duca d’Osuna, morto in carcere nel 1624 con l’ignominia del tradimento.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Fonte foto: dalla rete

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