Guglielmo Pepe e la Battaglia di Rieti

Negli ultimi giorni del febbraio 1821 il barone Frimont si portò col corpo austriaco in Abruzzo, mentre l’esercito costituzionale napoletano, guidato da Guglielmo Pepe, organizzava le difese nell’Aquilano. Purtroppo ben poco si era fatto per strutturare un preparato esercito. Nei suoi pochi giorni di vita, il parlamento si era dilaniato in esercitazioni retoriche e Colletta, ministro della guerra, lasciava apertamente intendere come fosse necessario rinunciare ad ogni resistenza perché non c’era neppure un sufficiente numero di fucili.

La mancanza di tempo e denaro non avevano consentito l’organizzazione di un efficiente spionaggio e, nell’incertezza, Pepe era stato costretto a disseminare parte delle sue scarse forze qui e lì, per chiudere gli accessi al nemico erigendo alcuni fortini a Civita Tommasa, Rocca di Corno, Antrodoco e a Sella di Corno.

Il nemico poteva entrare in Abruzzo attraverso quattro passi:

– da Ascoli, risalendo il Tronto e le valli di Amatrice, dove la difesa era affidata a Verdenois;

– dalla piana di Leonessa, provenendo da Piediluco o da Norcia o da Rieti, dove la difesa era nelle mani del colonnello Liguori;

– dalle gole di Antrodoco, giungendo dalla pianura di Rieti, dove era pronto il generale Russo;

– da Avezzano e Tagliacozzo, provenendo da Tivoli, dove la difesa era affidata al colonnello Manthoné.

Alla fine i nemici si presentarono in tutti e quattro i settori e si seppe che Colletta ed il generale Carrascosa erano in trattative per capitolare. La situazione era molto grave, Russo, da Rieti, aveva dovuto ripiegare su Cittaducale, i soldati mancavano di pane e di equipaggiamento adatto sui pendii nevosi, erano inoltre affranti e giù di morale.

Pepe pensò inizialmente di muoversi con una colonna di seimila fanti di linea, affiancata da altrettante guardie nazionali, lungo la cresta degli Appennini per Narni, Visso, Camerino, Fabriano, entrare nel Bolognese, avanzare a cavallo del confine tra Modena e la Toscana, e finire nel Piemonte, confidando nella solidarietà delle altre vendite carbonare d’Italia per portare la guerra rivoluzionaria in tutto il Paese. Tuttavia la deficienza dei mezzi e lo stato delle sue inesperte truppe lo portò presto a rinunciare a quell’idea così temeraria. Pensò allora di attaccare il nemico in una posizione a lui vantaggiosa, precisamente a Rieti.

I nemici che stazionavano in città erano le truppe del generale Villata, ovvero tre reggimenti di fanteria, uno squadrone di cavalleria e una batteria. In quei giorni era giunto al suo quartier generale il maggiore Cianciulli con l’ordine del Colletta di evitare azioni offensive e costruire un campo trincerato a L’Aquila, ma Pepe non seppe fidarsi di quelle disposizioni, avrebbe dovuto perdere tempo e risorse e rinunciare al vantaggio dei monti per fini a combattere contro l’intero dispiegamento nemico. Pepe ritenne pure che una sola vittoria, anche simbolica, avrebbe sollevato il morale depresso dei suoi uomini, fu così che si decise a contravvenire al Colletta.

 

La battaglia si polarizzò intorno alle mura di Rieti. Probabilmente Pepe pianificò un tentativo di avvolgimento del nemico alle ali con attacco centrale. Tuttavia la presenza del fiume Velino, inguadabile ad ogni punto, limitò queste operazioni. Il fiume spezzò l’azione in due combattimenti isolati.

La brigata Montemajor, che attaccò sulla sinistra del fiume lungo le alture di Sala con cinque battaglioni, non arrivò mai, come doveva, a tiro di moschetto dal Ponte Romano che separava la città dal borgo. Il Montemajor giunse oltre Sant’Antonio del Monte e lì rimase inerte durante tutta l’azione.

L’avvolgimento doveva essere completato a destra dalla brigata del colonnello Casella che si doveva muovere, attraverso la piana, sui colli dell’Annunziata. Infine, al centro, i cinque battaglioni di Capitanata e di Avellino, dal colle di Lesta, dovevano attaccare il colle dei Cappuccini e affacciarsi su Rieti, fiancheggiati in pianura dalla brigata del generale Russo.

Al contempo le comunicazioni su Piediluco dovevano essere interrotte dalla colonna Liguori, in movimento da Leonessa. Sulla rotabile sei cannoni del capitano Ruiz e duecento cavalli sostenevano il centro. Ultimi giunti, i battaglioni Cirillo e Beaumont e lo squadrone Ruffo Scilla costituivano la riserva tattica.

Prima dell’alba del 7 marzo, avanzato fra Cittaducale e Rieti, il generale Pepe scacciò un drappello di austriaci dal colle di Lesta, un rilievo prossimo a quello dei Cappuccini. Da qui poté rendersi conto del ritardo del Montemajor, della condotta brillante di Russo e Casella, della preponderante resistenza austriaca lungo l’asse della Salaria. Si decise quini a tentare egualmente l’avvolgimento sulla sinistra nemica lanciando Casella col suo VIII di linea all’occupazione del colle dell’Annunziata mentre egli stesso si precipitò sulla Salaria con una colonna, fiancheggiata da truppe leggere e preceduta da sei bocche da fuoco.

Purtroppo l’iniziativa fallì, Casella fu ostacolato nell’occupazione delle colline da ripetute cariche della cavalleria ungherese. Intanto i generali austriaci, riuniti nel palazzo del poeta Angelo Maria Ricci, decisero di far intervenire i rinforzi di Walmoden con un violento attacco sulla destra.

La confusione fu generale e, sebbene Pepe, affiancato in questo dal generale Russo, tentò di tenere in ordine le fila napoletane, fu tutto vano. La ritirata del giovane esercito napoletano si trasformò in fuga. Al generale non restò che tentare la fortuna alle gole di  Antrodoco.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: P. Pieri, Storia Militare del Risorgimento; G. Pepe, Memorie biografiche e intorno ai recenti casi d’Italia; P. Colletta, Storia del reame di Napoli dal 1734 al 1825; A. Bofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri

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