La insula romana

L’insula, casa modeste, destinata all’affitto, abitata da molti inquilini d’estrazione umile, quali ci appaiono negli scavi di Ostia, si differenziavano ovviamente da quelle ricche rinvenute a Pompei. Anzitutto elemento di diversità era rappresentato dall’altezza in quanto potevano avere 4 o anche sei piani, detti tabulata, contenenti poi più appartamenti, i cenacula. A differenza inoltre delle case pompeiane, queste case che chiamiamo di “tipo ostiense”, mancavano d’atrio e di peristilio, ma usufruivano di un maggior numero di finestre e anche balconi che davano sulle strade. La insula era, insomma, un tipo edilizio che costituiva il condominio dell’antica Roma tardo-repubblicana e, poi, imperiale.

G. Bandinelli, in un passo di Piccola storia dell’abitazione in Europa, così le descrive: “Il fenomeno sempre crescente dell’urbanesimo, la necessità di sfruttare lo spazio, la miseria in cui versava gran parte della popolazione, fecero nascere e diffondere in Roma un nuovo tipo di abitazione, le isole (insulae), cioè grandi edifici a tre, quattro piani divisi in appartamenti dati in fitto. La costruzione delle isole, ognuna delle quali conteneva in media intorno alleduecento persone, fu un’attività molto lucrosa. Gli imprenditori edili innalzavano muri sottili fatti di materiali scadenti, che mal si reggevano in piedi e che erano, quindi, esposti al continuo pericolo del crollo. I proprietari, poi, impararono presto a suddividere i già angusti alloggi in celle ancora più anguste, vere tane, per accogliervi inquilini ancor più poveri. Crasso, il potente triumviro, con queste case accumulò ricchezze favolose. Esistevano isole nelle quali alloggiavano funzionari, mercanti, piccoli industriali (e queste erano piuttosto decenti) e isole nelle quali viveva il proletariato. La struttura talvolta era in muratura, ma il materiale fondamentale era il legno, per la qual cosa le isole erano facile preda degl’incendi. L’acqua di cui Roma abbondava, non arrivava alle isole e bisognava attingerla dalle fontane pubbliche. Le isole sorgevano, appiccicate le une alle altre, in vicoli fetidi e rumorosi, e mancavano di tubi di scarico, di gabinetti, di cucine, di riscaldamento. I rifiuti di ogni genere venivano deposti in cisterne coperte in fondo alle trombe delle scale, dove periodicamente venivano prelevati da contadini in cerca di letame o da spazzini. E’ facile immaginare quale fosse il fetore di quelle case e come facilmente divampassero le epidemie”.

I vari vani non avevano una destinazione particolare e venivano destinati agli usi più disparati a seconda delle necessità dell’inquilino. Tale tipo di casa cominciò a diffondersi a Roma dal IV secolo a.C. in poi, a causa dell’aumento della popolazione. Mancando in città lo spazio necessario, si pensò di sfruttare l’altezza. Costruite direttamente sulla via e non più in luoghi appartati, davano agli inquilini scarsa tranquillità, tanto di giorno quanto di notte perché al mattino risuonavano del grande movimento della gente di passaggio, pedoni, lettighe, frequentatori di tabernae site al piano terra, mentre di notte risuonavano delle ruote dei carri in quanto, da Cesare in poi, i trasporti solevano svolgersi solo dal tramonto all’alba.

Assolutamente deficitaria era la solidità di tali strutture. La sicurezza era certamente pessima. L’insula non coprima più di tre o quattrocento metri quadri, contro gli otto o novecento della domus di Pompei, innalzandosi sino a venti metri. I crolli erano abbastanza frequenti e, ai rischi derivanti dallo squilibrio fra base e altezza, si aggiungevano deficitarie prescrizioni di legge. Vitruvio, per esempio, afferma che, a norma di legge, le pareti esterne non dovevano risultare più larghe d’un piede e mezzo. Ne derivavano edifici assai poco stabili, malgrado ogni sforzo e impiego di tecniche spesso anche assai evolute.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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