La pittura verista di Gioacchino Toma

Gioacchino Toma è il grande nome della pittura verista italiana. Dopo aver esordito con una pittura fondata sul disegno e sui colori tradizionali, riuscì in una elaborazione personalissima ad approdare su lidi innovativi, orientandosi ad un esame diretto ed intimo del dato umano.

Trapiantatosi a Napoli dalla natia Galatina, in provincia di Lecce, Toma si immerse in una pittura storica, caratteristica dell’indirizzo dei morelliani. Scegliendo l’aneddotica storica e contemporanea, l’artista pugliese si piegava alle vivaci e turbolenti condizioni ambientali del periodo risorgimentale ma riusciva a dar loro una tonalità personalissima.

Il successo del morellismo nella Napoli del tempo non si spiega senza considerare anche le condizioni particolarmente difficili entro le quali si dibatteva la borghesia, troppo a lungo contenuta dalla reazione borbonica post-1848. L’Unità era sopraggiunta con una pluralità di orientamenti politici ed era ora vissuta prostrata da una grave crisi economica. Toma, pur privilegiando sempre argomenti storici, ne esaltò l’aspetto sentimentale più di quello sociale.

Raffinato creatore d’ambienti interni descritti con pochi elementi d’arredo ma indagati prospetticamente, rinnovò il romanticismo napoletano pur lontano dalle acclamazioni della critica. Il “Torturato dall’inquisizione” o “La Ruota dell’Annunciata” sono quadri di ricostruzione storica che superano ogni caricata falsificazione teatrale; tele come “Le educande al coro” o anche “La Pioggia di cenere del Vesuvio” recuperano frammenti di suggestione ambientale che poggiano su saldi basi documentarie e piena corrispondenza col gusto del tempo. Così anche gli sprazzi macchiaioli di “Le corallaie” e “Funari di Torre del Greco”.

Tutto si comprende meglio alla luce de “Ricordi di un orfano”, sua appassionata memoria di un’infanzia difficile. La sua Napoli è lontana dal mito della bellezza solare. Non è il classico stereotipo della città partenopea incentrato sulle amene vedute e la natura chiassosa dei suoi abitanti. C’è sempre in Toma una malinconica partecipazione alle vicende umane in cui affiora una costante inclinazione autobiografica. Gioacchino Toma era divenuto orfano a sei anni. Fuggito dall’Ospizio di Giovinazzo, dove apprese le prime tecniche di disegno realizzando delle nature morte, raggiunse Napoli, città che si incamminava verso la rivoluzione del 1860 ed ospitava un’enorme quantità di artisti pugliesi. Qui  venne arrestato dalla polizia. Diciotto mesi di carcere a Piedimonte d’Alife, il tempo d’essere introdotto alla carboneria, e fu liberato. Non rinunciò ai suoi ideali e finì a capo della rivolta antiborbonica in Terra di Lavoro, poi sottotenente garibaldino, negli scontri di Santa Maria Capua Vetere e Caserta, e Guardia Nazionale nelle repressioni delle insurrezioni borboniche in Molise, salvato solo da Cialdini.

Questi lavori non incontrarono mai opinioni favorevoli, i colori furono giudicati scialbi, il gusto del resto era ancora orientato all’esasperazione delle forme ed alla superficialità cromatica. I quadri di Toma ricordano il groviglio di esperienze pieno di miserie e di malinconie. Tutto così lontano, troppo lontano, dal verismo. Toma fu addirittura chiamato “il pittore del grigio” senza comprendere quanto di interiormente profondo, di sentito, di umano, di poetico ci fosse nei suoi lavori come nel misticismo de “La Messa in casa” o nell’infelicità inconfondibile de “Le due madri”.

L’intensità emotiva e l’intima poesia delle opere di Toma furono scoperte più tardi quando anche la critica si mostrò matura per coglierne gli accenti più alti e profondi. Tutte le sue opere narrano questa pulsione ideale, l’intimo tragico e doloroso dell’infanzia, il patriottismo inteso come sacrificio dall’incredibile peso drammatico.

E’ il caso de “Luisa San Felice in carcere” del 1874, conservata al Museo Nazionale di Capodimonte. In questo dipinto, celebrato e dato in pasto al grande pubblico, Toma ricorda l’episodio della condanna a morte di Luisa Sanfelice, dopo il fallimento della Repubblica nel 1799, procrastinata perché la donna si finse incinta.

La cella, disadorna e misera, non distrae lo spettatore dalla drammaticità del momento e dalla dignità della condannata, anzi permette di concentrarsi proprio sulla donna nell’atto di confezionare un corredo per un bambino che non può nascere. Seduta compostamente, ella ricama, l’attende la morte ma è sorretta da una forza e da una calma interiore immensa che le permettono di attendere con dignità il giorno dell’esecuzione.

E’ un atteggiamento mentale di fondo che si respira nelle superfici delle spoglie pareti di “O Roma o Morte”, come nei tratti pensosi di “Piccoli patrioti” e nella poeticità elegiaca de “Figli del Popolo”. Tutte composizioni costruite su schemi ed intonazioni di tristezza dal chiaro carattere illustrativo che carica la rappresentazione storia di una espressione sentimentale intima.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

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