La reazione borbonica ad Isernia

Le vicende di Isernia sono assai singolari per almeno due ragioni. La prima è che le sommosse antiunitarie si verificarono usualmente nei villaggi e, dunque, è una assoluta anomalia il fatto che teatro di una insurrezione generalizzata a favore dei Borbone sia stata una città capoluogo come Isernia. Non basta a spiegare ciò la vicinanza con le truppe di Francesco II stanziate a Gaeta perché esse non fornirono mai un supporto determinante all’impresa dei rivoltosi. Ad Isernia possiamo affermare che non solo non si è verificato l’accerchiamento della città dalla campagna come ai tempi del cardinale Ruffo, ma che anzi è stata la città ad irradiare la rivolta nei centri rurali e di periferia. L’unica ragione di quanto accaduto pensiamo stia in una rete di relazioni sociali che, per un qualche motivo a noi ignoto, forse un più blando controllo degli unitaristi o forse solo l’intraprendenza dei singoli, saldarono volontà, interessi e sentimenti in un moto collettivo capace non solo di spazzare via la controparte liberale e metterne in fuga gli scagnozzi, ma anche di dare vita ad un autogoverno condiviso, lontano da pericolose degenerazioni caotiche. E questa è la seconda anomalia. L’insurrezione non si esaurì in qualche sera di disordine, non si risolse nel saccheggio e nella violenza incontrollata, l’insurrezione generò un nuovo governo che andò avanti per mesi in una Italia che era già stata dichiarata unita.

A partire dallo sbarco di Garibaldi in Calabria, la rivolta antiborbonica era divampata in tutto il Sud della penisola. Gran parte del territorio delle Regno delle Due Sicilie era presto finito sottratto alle autorità e gruppi armati di rivoluzionari, come la Legione del Matese, si organizzarono per spossare le truppe borboniche stanziatesi sulla linea del Volturno. Nonostante le ripetute sconfitte e la marcia fulminea dei garibaldini, non tutto poteva dirsi perduto per Francesco II che, riorganizzato l’esercito sotto il comando del generale Ritucci, tentò il colpo di coda il I ottobre del 1860. Forte in numeri ed armamento, l’esercito borbonico, però, sui tre fronti di Santa Maria Capua Vetere, Maddaloni e Castelmorrone, tra indugi e difficoltà di coordinamento, contro ogni aspettativa perse una battaglia vinta sul campo. La divisione di Afan De Rivera, conquistata Sant’Angelo in Formis, vi si era inspiegabilmente fermata, e tentennamenti si ebbero anche a Santa Maria, finché l’arrivo da Caserta delle riserve garibaldine rese vano ogni tentativo di riconquista. Truppe borboniche restarono finanche chiuse in Capua, mentre ai Ponti della Valle lo svizzero Von Mechel, che aveva di sua iniziativa spedito cinquemila uomini ad attraversare il Volturno per conquistare le alture di Caserta Vecchia, si rese conto troppo tardi che invece avrebbe avuto bisogno di loro per schiacciare definitivamente i garibaldini raccolti su Monte San Michele. Agli errori di Ritucci e Von Mechel si aggiunsero quelli del generale Ruiz, che giunse a Caserta Vecchia quando i garibaldini già ne occupavano le alture.

La sconfitta inaspettata confermava ormai le sorti di Francesco II che, destituito Ritucci, provò a mantenere Capua e poi si acquartierò di là dal Garigliano. Fu proprio lì che il 28 ottobre divampò di nuovo la battaglia, ed i borbonici stavolta non solo contennero gli assalti sabaudi, ma, varcato di nuovo il fiume, inseguirono i nemici, facendo non pochi prigionieri. Non fu una chiara vittoria, perché mentre si lavorava alle fortificazioni sull’alto corso del Liri e tutte le località di frontiera venivano occupate e capitolava Capua. Di lì a qualche giorno, il 2 novembre, e Mola, nuovo quartiere generale borbonico, veniva bombardata dalla marina sabauda. Il 13 di quel mese iniziava così l’eroica resistenza dell’isolata Gaeta. Da lì i tentativi di ricreare un’autorità civile collegata al destituito sovrano e attuati sin dal mese di settembre, continuarono sino alla capitolazione del febbraio del 1861.

Ad Isernia, sin dal mattino del 30 settembre, uno spettacolo insolito aveva colto l’attenzione del neosindaco Stefano Jadopi. Folti gruppi di contadini, giunti dalle campagne circostanti, percorrevano animosi le strade cittadine e si radunavano presso il Palazzo Vescovile. Si era diffusa la notizia che l’esercito di Francesco II marciava su Venafro e ciò, se incuteva un certo timore nei liberali che sin dal giorno 8 di quel mese avevano proclamato decaduto il re in favore di Garibaldi, entusiasmava invece il Vescovo Saladino, strenuo difensore dei Borbone, a capo di una diocesi così vasta da giungere sino al circondario di Sora.

Don Peppino Di Pasquale, cameriere del religioso, era stato inviato a prendere accordi con la gendarmeria reale; la cosa era pure nota al Sottogovernatore Giacomo Venditti che però poteva farci ben poco vista la gran quantità di contadini armati che lì accorrevano richiamati da Gennaro de Lellis e don Antonino Melogli.

Era stato ben informato di quanto accadeva lo stesso Governatore della Provincia Nicola de Luca, ma ben poco poteva perché il Capitano della Guardia Nazionale, tale Gabriele Melogli, parente stretto del reazionario Antonino, si era dimesso ormai da quattro giorni, e nessuna forza era disponibile per tutelare la rivoluzione nazionale. Francesco Cimone, fedele al vescovo, s’era improvvisato capitano e aveva licenziato le guardie, così i filoborbonici continuavano ad organizzarsi senza ostacoli, percorrevano su e giù le strade cittadine, incontravano il vescovo, raggiungevano i paesi circostanti, si ritrovavano nelle piazze e nei quadrivi per discutere sottovoce del da farsi, mantenevano poi un surreale silenzio ed un onirico ordine civile, preludio alla tempesta che entro poche ore si sarebbe abbattuta sui liberali. Verso le quattro del pomeriggio del giorno 30, una massa di circa cinquecento contadini armati di scure ed altri strumenti da taglio si riunì in piazza mentre Gennaro de Lellis si presentò al Sottogovernatore per annunciare l’arrivo delle truppe borboniche.

Il partito liberale in Isernia aveva in Stefano Jadopi il suo capo. Definito in talune cronache ambizioso e corrotto, Jadopi era divenuto sindaco il 9 settembre del 1860, un giorno dopo la proclamazione del governo dittatoriale, proprio mentre la provincia restava sguarnita delle forze nazionali comandate da Giacomo de Sanctis, che si spinsero verso Napoli, e delle colonne insurrezionali di Pateras e Fanelli, che invece andarono negli Abruzzi.

In questo contesto de Lellis, aiutato dal figlio Francesco, ufficiale nei cavalleggieri della Guardia, da Angelo del Furgato, dal vescovo e dal penitenziere Giovanni Giura, annodò le fila della reazione portando al Largo Fiera, il 30 settembre, un febbricitante popolo che invocava la restaurazione dei Borbone.

All’una di notte di Pasquale, accompagnato da un militare borbonico, guidò i più esagitati all’assalto del corpo di guardia. Furono sfondate le porte, liberati i prigionieri e devastati mobili e stemmi. I pochi accorsi in difesa dell’ordine, capeggiati dal comandante Giovanni Filippo Ghirelli, intimarono lo scioglimento dell’assemblamento, ma si videro rispondere a colpi di fucile dagli ammutinati e riuscirono a guadagnarsi la fuga a colpi di fucile. Si salvarono così il Sottogovernatore, il Giudice Circondariale Ferdinando Boccia, Francesco Jadopi, secondogenito di Stefano, Cosmo de Baggis e pochi altri, nonché lo stesso maggiore. Solo Venditti e Ghirelli riuscirono definitivamente ad abbandonare la città mentre prendevano il via scene di tremenda violenza persecutoria.

Francesco Jadopi e il giudice Boccia si rifugiarono nella casa di Cosmo de Baggis che, presa d’assalto, fu la loro tomba. E mentre si minacciava d’appiccare il fuoco al Palazzo Jadopi, la signora Olimpia Jadopi, uditi i propositi ed i colpi di fucile, raccolse i suoi bambini e fuggì. Le case dei simpatizzanti garibaldini, dei proprietari terrieri, furono saccheggiate. Le abitazioni dei capi della rivolta, cioè quelle di Gennaro de Lellis, Vincenzo Cimorelli, Francesco Cimone, Achille Belfiore, del canonico penitenziere e dei fratelli Melogli furono tutelate dagli stessi insorti.

Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, inviò una missiva a Francesco II in cui sintetizzò così i fatti: “A Sua Sacra Real Maestà Francesco II […] il contadino Vincenzo di Ciurcio, alias Pagano, d’Isernia fedelissima, suddito divotissimo ed attaccatissimo alla Maestà Sua […] l’espone che egli ha mossa la popolazione e messosi alla sua testa […] si assaltò li 30 a sera il corpo della Guardia Nazionale […] Il giorno seguente, 1° ottobre la popolazione distrusse qualche individuo della Maestà sua. Furono arrestati i corrieri e le corrispondenze dei garibaldini da esso esponente, il quale fece pure aprire il commercio dei generi per Capua, stato impedito dai detti garibaldini onde far morire di fame i regii; ripristinò gli stemmi e la bandiera borbonica; attivò il servizio urbano al numero di circa mille scelti tra i migliori pagando grana venti il giorno per ognuno di denaro tolto dalla cassa che si sapeva essere stata fatta per il mantenimento del Corpo della Guardia Nazionale […]”.

Il 1° ottobre si procedette alla nomina di un nuovo governo cittadino. A capeggiarlo fu Gennaro de Lellis. Delle truppe borboniche però non s’era vista manco l’ombra e fu spedito un corriere a Venafro, che dal 30 settembre ospitava la gendarmeria borbonica guidata dal De Liguori, e finalmente a sera giunsero i gendarmi borbonici tanto attesi. Il clima era d’esaltazione e fanatismo, ai rivoltosi riuniti nella sala episcopale monsignor Saladino diceva: “la Madonna aver fatto il miracolo mandando i gendarmi a proteggere il movimento” . Nel giro di poche ore furono relegate nelle carceri le famiglie liberali, le loro case finirono saccheggiate. Le autorità appena elette presenziarono alla messa nel duomo, dove fu cantato il Te Deum, e decretarono il ripristino degli stemmi di Francesco II in tutti i luoghi pubblici. Stefano Jadopi descrive queste ultime come “orrorose scene” e punta il suo dito contro “Teodoro Salzillo, famigeratissimo reazionario di Pozzilli, che quale messaggiere benanche di Gaeta ad Isernia, teneva la frequente corrispondenza di Vincenzo e Nicolino padre e figlio Cimorelli, l’uno di residenza in Venafro, mentre l’altro era notissimo tra gli abbastanza noti d’Isernia”. Salzillo “si confaceva perdutamente alla causa Borbonica, evita nei paesi del Mandamento di Venafro a raccogliere una massa di volontari saccheggiatori, e dieci nuclei si organizzavano nel silenzio del bosco di Turcino. Ebbene quattro capi massa viene in Isernia, prende alloggio nella casa di D. Vincenzo Cimorelli, ebbe conferenza con D. Gennaro de Lellis e visita i gendarmi. Nel giorno 28 Settembre 1860 inopinatamente la gendarmeria a cavallo li conduce in Venafro dove si diceva dover venire la truppa regia e si pose in contatto col Salzillo, il quale giorni prima era stato in Gaeta a conferire col Re Francesco. Fece ritorno nella sera medesima, ed il Sergente fu sollecito di visitare il Cavaliere de Lellis nella sua casa, ed il Vescovo nell’Episcopio. Intanto la banda del Salzillo già erasi formata nel bosco di Torcino, e vi fu bisogno di una marcia di una colonna di Garibaldini e Guardia Nazionale, la quale non poté stornarla dal congiungersi con la gendarmeria che da S. Germano marciava a questa volta”.

Da Isernia la rivolta si propagò nell’intero distretto, pure nei luoghi prossimi a Campobasso. Il Duca di Pescolanciano tesseva le fila dei moti a Pietrabbondante, Chiauci, Carovilli, Civitanova, Ciurcio. Il 4 ottobre, buona parte del Molise celebrò la festa onomastica di Francesco II, ma i festeggiamenti duraron poco. Il Governatore de Luca, forte di una intera colonna di Guardia Nazionale sannitica, affiancato da 800 armati appiedati e 60 a cavallo, s’acquartierò sui monti di Isernia. Contemporaneamente Ghirelli diede ordine occupare con 200 uomini le colline dominanti alla sinistra della città, poi mosse la cavalleria in una carica frontale; ne nacque uno scontro di tre ore e, alle 17 pomeridiane, i garibaldini di De Luca riuscirono ad entrare a passo di carica in Isernia.

Tra i volontari garibaldini, non c’erano isernini, pochi meridionali, ma tanti albanesi, comandati di Luigi Demetrio Campofreda. De Luca decretò lo stato d‘assedio ed impose una pesante tassa di guerra di 12.000 ducati. Furono arrestati il vescovo, Gabriele Melogli, Giovanni Giura e Francesco Cimone. Il Jadopi ci informa che furono quarantasette i cadaveri di borbonici e reazionari e solo tre furono i feriti tra i garibaldini.

Illusoria fu però la vittoria, perché subito le camicie rosse furono obbligate a ripiegare verso Castel di Sangro da una massa di circa quattromila soldati con due pezzi di cannone; essa, affiancata da centinaia di contadini armati sparsi sopra i colli circostanti, aveva loro tagliato pure la ritirata per Campobasso; si avvistarono pure centinaia di contadini troneggiare armati sui monti prossimi alla strada che da Isernia conduce a Bojano. I garibaldini non poterono che ritirarsi.

La rivincita del 5 ottobre fu un trionfo per i borbonici. Il Nazionale del 21 novembre 1860 scrive che Isernia fu direttamente amministrata da Francesco II. Vi si insediò il maresciallo di campo Luigi Scotti-Douglas per con l’autorità dell’alter ego. Furono imposte tasse e fu lanciata una campagna per l’arruolamento “per la causa dell’ordine”, così come a Mola, Sora e Piedimonte.

Le acque sembrarono calmarsi, ma i volontari reazionari ed i soldati borbonici dovettero ancora respingere i garibaldini del colonnello Nullo, tra il 16 ed il 17 di ottobre, nella valle tra Castelpetroso e Pettoranello. Da Carpinone le camicie rosse provarono a rifugiarsi presso Forlì del Sannio, ma persero centoquaranta uomini fatti prigionieri, due bandiere, con cavalli e salmerie. Si contarono ben 1245 vittime tra guardie, volontari liberali, reazionari e soldati delle due armate belligeranti. Fra i prigionieri c’erano pure dieci ufficiali sabaudi; il popolo esultante si scatenò in una nuova sanguinaria ritorsione contro le famiglie liberali, ma la città sarebbe restata nelle loro mani pochi giorni ancora.

Fu il 20 ottobre che, immaginando di doversi scontrare con pochi reparti isolati o persisi in zone sconosciute, Scotti-Douglas mise in moto la propria colonna di armati da Venafro verso la sommità del Monte Macerone, assieme ad un migliaio di civili inquadrati nei reparti volontari, due pezzi di artiglieria da montagna e il battaglione del I reggimento di linea. In realtà Scotti-Douglas, avvolto dalla nebbia, aveva davanti l’avanguardia del generale Enrico Cialdini, composta dal VI e dal VII Battaglione Bersaglieri, da una sezione di artiglieria, da uno squadrone del V Lancieri di Novara e da reparti agli ordini del generale Griffini, uomini che già avevano occupato il Macerone sin dal 19 ottobre a sera. L’impatto col nemico, sebbene inizialmente favorevole, costrinse i borbonici a tentare la ritirata su Isernia, per organizzarvi la resistenza, ma, in quel frangente, due squadroni di cavalleria sabauda, approfittando della posizione molto avanzata di un grosso reparto borbonico, lo circondò e lo isolò dalla restante forza, facendo tutti prigionieri, compreso Scotti-Douglas.

Isernia fu così occupata dalle truppe italiane. Il popolo molisano scontò duramente la sua animosità. Un dispaccio telegrafico del governatore Nicola De Luca, pubblicato sul Giornale Officiale di Napoli, recitò: Spinga pure la di lei colonna domani all’alba verso Boiano; dal canto mio manderò una riconoscenza verso Pettoranello. Non più lontano, perché ho le truppe stanche. Il Generale borbonico Scotti volle prevenirmi questa mattina al Macerone con cinque o sei mila uomini. Ho fatto prigioniero lui, una cinquantina di ufficiali, sette od ottocento soldati (la maggior parte del 1° di linea) una sezione di artiglieria ed una bandiera. Il resto fu disperso fino al ponte del Volturno verso Venafro. Trasmessa la notizia a Napoli. Faccia pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere soltanto alle truppe. Oggi ho già incominciato. Domani all’alba farò partire la colonna da qui. Il generale Cialdini”. Vittorio Emanuele II visitò una città vinta. Alloggiò nella casa di Vincenzo Cimorelli, mentre il comandante Farini avviava le necessarie inchieste sui luttuosi fatti della reazione.

Furono condotti al carcere centinaia di popolani e ciò comportò pure gravi conseguenze finanziarie per le loro famiglie e per il tessuto economico di Isernia. Dei 412 imputati, solo 276 furono i prosciolti. In maggioranza si ebbero condanne alla pena dei lavori forzati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: S. Jadopi, La Reazione avvenuta nel distretto d’Isernia dal 30 settembre al 20 ottobre 1860; V. M. Briamonte, Cause, mezzi e fine della reazione d’Isernia avvenuta nel 30 settembre 1860; A. Mattei, Storia d’Isernia; G. de Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861; Archivio di Stato di Caserta, Fascicoli Processi Politici e di Brigantaggio, B. 93, f. 3 e 4

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