La scrittura dei Longobardi

I germani possedevano un loro proprio alfabeto noto col nome di alfabeto runico e composto di simboli caratterizzati da tratti semlici e rettilinei di non chiara origine. Fu una scrittura destinata essenzialmente a scopi votivi e religiosi d’aspetto magico e la sua diffusione fu molto diversa e seguì strade spesso oscure: presso alcuni le rune furono molto utilizzate per monumenti in pietra, presso altri, invece, non conobbe quasi diffusione. E’ questo il caso dei longobardi.

Quando i longobardi giunsero in Italia, ormai da un millennio la scrittura era stata alla base della vita pubblica e privata. Ancora sotto i goti, nel VI secolo, la tradizione scrittoria del mondo antico proseguiva ed era elemento essenziale della vita culturale e politica del regno. Per quanto riservata ad una ristretta cerchia di aristocratici, la cultura era ancora vissuta come elemento di grande prestigio.

Testimonianze dirette sulla conoscenza e sull’uso di sistemi grafici da parte dei longobardi prima del loro ingresso in Italia non sono note. Chiaramente durante la loro marcia verso l’Europa del Sud conobbero il mondo bizantino e presero parte alle sue strutture militari, dunque dovettero conoscere regolamenti e leggi che ne erano alla base e ciò vuol dire che conobbero in modo almeno rudimentale la lingua latina. La loro però continuò ad essere una cultura prevalentemente orale. Da questo punto di vista l’invasione longobarda della Penisola segnò una profonda rottura col passato perchè sancì un crollo della cultura scritta evidente. Lo si coglie anzitutto attraverso l’analisi di alcuni manufatti. Monete con leggende indecifrabili, puntali di cintura con monogrammi incisi che si trasformano in grovigli apparentemente senza senso, dicono molto. Parliamo di uno stile grafico sostanzialmente impregnato di una concezione “sintetico figurale”.

Ancora più evidente è la tesimonianza fornita dalla documentazione scritta di carattere governativo: già settanta anni dopo il loro arrivo, i longobardi sentirono l’impellenza di porre per iscritto le loro leggi e lo fecero con l’Editto di Rotari, steso dal notarius Ansoaldo nel 643, che fa riferimento a precedenti scritture private ed è dunque una prova evidente che prima della sua emanazione i longobardi erano vissuti praticamente ignorando l’uso della scrittura.

La conseguenza di tutto ciò fu il passaggio del monopolio culturale alla Chiesa ed il nascere di un profondo divario tra cultura laica e cultura ecclesiastica che segnerà tutta la storia medievale. Costoro continuarono a studiare il latino per comprendere le Sacre Scritture e a produrre libri negli scriptoria monastici.

Dopo la metà del VII secolo i longobardi riuscirono a completare il lungo processo di fusione con la popolazione romana, che condusse anche alla diffusione della scrittura. Per forza di cose, del resto, l’amministrazione di un regno imponeva l’urgenza di “uomini di lettere” per redigere leggi e atti necessari alla giustizia e all’organizzazione delle terre occupate, nonchè di un ceto di giudici, notai e scribi pubblici che potesse redigere compravendite di terreni, permute, donazioni, lasciti, testamenti. Probabilmente costoro si formarono nell’ambiente culturale di Pavia. Qui si diffuse una scrittura che andò poi differenziandosi secondo particolarità locali divenendo di volta in volta veronese, ravvenate, lombarda, ecc.

Nelle analisi dei codici e delle iscrizioni epigrafiche sono diverse le caratteristiche che si segnalano. Troviamo la “A” aperta, la “T” ansata o con unsemplice trattino che in legatura si innalza rispetto le altre lettere, e in genere un aspetto piuttosto regolare e tondeggiante: gli elementi curvilinei della “S” tendono a spostarsi verso le estremità ed il tratto centrale può divenire verticale; il medesimo fenomeno si osserva nella “C”; la “O” può assumere la forma a “goccia”, a “mandorla” o a “rombo”; un’apicatura più o meno marcata completa i tratti ed, infine, il tratteggio si rivela poco chiaroscurato, a seguito del solco sottile, che non presenta espansioni o restringimenti, come avrebbe voluto invece la capitale epigrafica di tipo classico. Si può parlare, quindi, non di semplice evocazione di modelli tardoantichi, ma di vera e propria “capitale longobarda”.

Per quel che concerne la lingua non esistono testimonianze scritte del longobardo, se non alcune parole sporadicamente contenute nell‘Editto di Rotari. Anche il Codice matritense, stilato a Capua nel X secolo, contiene un glossario di termini giuridici longobardi tradotti in latino. Egual cosa si dica del Codice cavense, anch’esso infatti raccoglie un glossario di termini giuridici longobardi. Torniamo però a parlare di scrittura perchè, spostandoci verso il Sud Italia, ci confrontiamo con quella che è stata chiamata “scrittura beneventana”. Tale scrittura fu sviluppata dopo la caduta del regno longobardo, nei Ducati di Benevento, Salerno e Capua. Questa scrittura fu denominata “beneventana” ma è stata usata in tutto il Mezzogiorno e anche nell’area dalmata sotto l’influenza barese. La scrittura beneventana si pone quale risultato di una trasformazione grafica della minuscola corsiva. Secondo la tesi del paleografo E. A. Lowe, tale fenomeno è da ricondurre all’attività di produzione libraria dell’archicenobio cassinese che fu “la culla della beneventana”, tanto che i periodi di sviluppo e di evoluzione della scrittura sono relazionati dallo studioso alle diverse fasi della storia dell’abbazia.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: E. Percivaldi, Brevi note sulla scrittura longobarda in Italia

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