La forza emancipatrice del Risorgimento

Il 17 febbraio del 1848 il re Carlo Alberto di Sardegna promulga il decreto con il quale emancipa i suoi sudditi valdesi, riconoscendo loro tutti i diritti politici e civili; il successivo 29 marzo emancipa civilmente gli ebrei, che il 9 aprile ottengono finalmente anche di potersi arruolare nelle regie forze armate (il regno sabaudo era già formalmente impegnato, dal precedente 23 marzo, nella Prima Guerra di Indipendenza, e tanto i valdesi quanto gli ebrei scalpitavano per battersi in favore di quella Italia unita che, già allora, faceva in qualche misura presagire, con la emancipazione nazionale del popolo italiano, anche la emancipazione di queste antiche quanto, sino a non molto tempo prima, vessate e perseguitate minoranze di fede); infine, con la approvazione parlamentare della storica legge Sineo, il 19 giugno fu sancita la definitiva equiparazione legale di tutti i sudditi, che da allora potevano godere di tutti i diritti politici e civili, ed avevano facoltà di accedere alle cariche pubbliche, quale che fosse il proprio orientamento spirituale e morale (una legge chiara, di un solo articolo, che andava, evidentemente, persino molto oltre i precedenti decreti emancipatori).

Nonostante l’esito assai sfortunato di quella prima guerra per l’indipendenza nazionale, l’allora Regno di Sardegna mantenne – e fu l’unico, tra tutti gli Stati italiani preunitari – quelle storiche ed avanzate garanzie di libertà, anche dopo l’abdicazione di Carlo Alberto in favore di suo figlio Vittorio Emanuele (marzo 1849), una posizione storicamente importante, che gli va riconosciuta, e che ne fece il punto di riferimento assolutamente centrale di tutti i patrioti italiani, di qualunque provenienza geografica e politica essi fossero, tutti comunque esuli perché condannati, sovente alla pena di morte, dalle autorità dei rispettivi stati – cioè gli altri stati italiani preunitari – (una posizione che ovviamente non può, né tanto meno deve, far dimenticare che proprio un discendente di Carlo Alberto, ossia re Vittorio Emanuele III, novant’anni dopo, avrebbe invece colpevolmente promulgato, seppure in dissenso e con frustrazione, quelle famigerate Leggi razziali fortemente volute da Mussolini).

I provvedimenti del 1848 non caddero improvvisamente dal cielo, ma furono il risultato di una duplice mobilitazione crescente (e convergente): da un lato quella dei valdesi e degli ebrei del Regno sabaudo, sempre più desiderosi di essere cittadini alla pari di tutti gli altri, condividendo pienamente anche i relativi oneri, come l’impegno militare per la causa del Risorgimento, dall’altro quella dei migliori spiriti liberali di quell’epoca, come i fratelli Roberto e Massimo Taparelli d’Azeglio e Camillo Benso di Cavour, tutti e tre rampolli di ricche e blasonate famiglie dell’aristocrazia piemontese, e tutti e tre diversamente ma attivamente fautori di un cambiamento in senso autenticamente liberale e nazionale della politica del regno (politica che, sino a pochi anni prima, si era invece palesata come uno dei bastioni della reazione nella penisola).
Molti valdesi ed ebrei, per esempio, diedero ai propri figli maschi il nome di Roberto, come il maggiore dei due fratelli, autore della prima petizione pubblica a favore della loro emancipazione, mentre Massimo pubblicava, proprio all’inizio dello stesso 1848 – egli non fu nemmeno il primo a farlo, basti solo pensare ai precedenti e noti lavori di autori risorgimentali non meno autorevoli, come Carlo Cattaneo e Niccolò Tommaseo -, un opuscolo nettamente e appassionatamente favorevole alla medesima campagna, apertamente sostenuta anche dal giornale Il Risorgimento, del quale il Cavour era fondatore, editore e direttore, quello stesso Cavour che in seguito assunse, come segretario, l’ebreo Isacco Artom, divenuto uno dei suoi più fidati collaboratori, ed in seguito (1876) anche primo senatore ebreo del Regno d’Italia.

 

 

Autore: Claudio Carpentieri

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