Le origini del potere temporale del Papa

Le origini del potere temporale del Papa sono di seguito presentate da L. Halphen in “A travers l’Histoire du Moyen Age” (Parigi 1950) soffermandosi sugli aspetti cruciali della campagna condotta nel 751 dal re Astolfo contro i territori bizantini di Ravenna, della Pentapoli e del Ducato Romano e della risposta di Pipino, re dei Franchi, tre anni dopo, in seguito agli accordi stipulati a Ponthion col pontefice Stefano II.

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Se non abbiamo più l’atto di nascita dello Stato pontificio, sappiamo almeno quando e in quali circostanze esso è sorto.

Si era alla metà dell’VIII secolo. L’Italia si trovava allora in una situazione confusa. Teoricamente, essa faceva parte dell’”Impero Romano” che, dopo la scomparsa dell’ultimo imperatore di Ravenna, nel 476, dipendeva tutto quanto dal sovrano della “Nuova Roma”, fondata da Costantino sulle rive del Bosforo; ma, in pratica, e malgrado gli effimeri successi riportati nel VI secolo agli eserciti di Giustiniano, sfuggiva per più di tre quarti all’autorità del governo imperiale, troppo occupato, d’altronde, dalla lotta contra gli Arabi, i Bulgari e gli Slavi, per poter intervenire in Occidente in maniera efficace.

Nel 568, essa era divenuta la preda dei Longobardi, che non avrebbero avuto, certamente, grande difficoltà a completare di primo acchito la loro conquista, se non fossero stati assai presto fermati nel loro sforzo da una mancanza di accordo e da una straordinaria incapacità di organizzazione, che doveva condurli, due secoli dopo, alla rovina. In conseguenza del loro arresto, la dominazione bizantina aveva potuto mantenersi alla meglio non solo in Sicilia e nell’estremo sud, ma anche in diversi altri punti delle coste dell’Adriatico e del mar Tirreno, he la superiorità della flotta imperiale permetteva di difendere più facilmente: in Istria, a Venezia, a Napoli e nei dintorni di queste città. Infine, al centro, essa era rimasta intatta, sui due versanti dell’Appennino, dalla foce del Tevere alla foce del Po, in una zona continua di territori nei quali erano conglobati, tutti insieme, il ducato di Roma, verso ovest, – tra la Marta (al nord di Civitavecchia), il Garigliano e i monti della Sabina – e i due ducati della “Pentapoli” (le Marche) e di Ravenna (la Romagna), verso est, con le città di Ancona, Rimini, Ravenna, Ferrara, Bologna, Faenza, Forlì.

Una strada militare, difesa da una lunga seri di luoghi fortificati, e che attraversava l’Umbria da nord a sud, quasi in linea diritta, da Gubbio a Orte per Perugia, saldava questi due gruppi di province e assicurava le comunicazioni tra le due capitali, Ravenna e Roma; l’una, divenuta la capitale politica quando, nel 404, l’imperatore d’Occidente vi aveva trasferita la sua corte e dove aveva residenza il governatore o “esarca” d’Italia (di qui, il nome di “Esarcato”, dato al ducato di Ravenna); l’altra, l’antica capitale del mondo, dove l’isolamento, nel quale vivevano, unito al prestigio religioso connesso alla loro funzione, aveva permesso ai papi di giocare un ruolo, sempre crescente, di amministratori e di organizzatori della difesa.

Nulla era maggiormente d’impaccio ai Longobardi che questa zona centrale, la quale divideva i loro ducati di Spoleto e Benevento dai loro possessi dell’Umbria occidentale e di Toscana. Ci si doveva attendere di vederli, un giorno o l’altro, cercare di far breccia da questo lato nelle difese nemiche; Roma medesima, quel giorno, rischiava di essere travolta nella tormenta. Bruscamente, verso il 725, questa minaccia si era precisata.

I Longobardi erano, infine, usciti dall’anarchia, nella quale le loro forze si logoravano in pura perdita, e si erano dati, in Liutprando, un re intraprendente ed energico. Egli aveva fatto subito qualche proposta al papa, al quale testimoniava il suo rispetto con un po’ troppa ostentazione. Ma inutilmente i suoi compatrioti erano passati al cattolicesimo, dopo essere stati per lungo tempo ariani; inutilmente si erano dati un’infarinatura di civiltà latina: essi restavano barbari agli occhi dei Romani, e, più di ogni altra cosa, un’idea doveva sembrare intollerabile al pontefice, nel quale lo stesso Liutprando salutava il capo della Chiesa universale: quella di vedere Roma diventare la capitale di un re germanico e il seggio di san Pietro abbassato al rango di vescovato longobardo. A tutte le offerte di Liutprando il papa – si chiamava allora Gregorio III – aveva opposto un rifiuto, e la guerra era scoppiata.

Guerra singolare, in cui la forza materiale era dalla parte longobarda e in cui il papato era tutto riuscito a spuntarla per un quarto di secolo, con l’aiuto soltanto del suo ascendente morale! Per quattro volte, nel 728, 739, 742, 749, la sola vista del Sommo Pontefice, che usciva dalla Città Eterna, alla testa del clero, per andare risolutamente, come un tempo Leone Magno, incontro ai barbari, era stata sufficiente ad evitare la catastrofe nel momento critico, quando le truppe longobarde stavano per prendere d’assalto le ultime difese di Roma, di Perugia e di Ravenna. Liutprando non aveva osato passare oltre, e, dopo di lui, il re Ratchis aveva spinto lo spirito di contrizione fino ad abdicare senza indugio (749), per andare ad espiare nella pace di un chiostro la sua ardita impresa.

Ma il successore di Ratchis era stato Astolfo, il cui spirito risoluto non si poneva alcuno scrupolo. Fino dal 751 vediamo il nuovo re piombare su Ravenna, da dove l’esarca fugge; la città e tutta la provincia cadono in suo potere; la Pentapoli subisce la stessa sorte; dopo di che, il conquistatore si rivolge verso il territorio romano (752). Per guadagnare tempo, il papa Stefano II tenta di negoziare, ma senza successo. Astolfo esige la sottomissione pura e semplice, e corre voce che egli si propone di far tagliare la testa a chiunque resisterà. Malgrado la drammatica situazione, l’imperatore non ha potuto inviare che buone parole e un diplomatico, il “silenziario” Giovanni. Bisogna provvedere sul campo: è dalla parte della Gallia che il papa rivolge i suoi sguardi: è dal re Pipino il Breve che egli si risolve ad implorare salvezza.

Esisteva un precedente, in verità poco incoraggiante: nel 739 e 740, Gregorio III aveva indirizzato, a qualche settimana di distanza, tre lettere di supplica a Carlo Martello, per chiedergli aiuto nel momento in cui, per la seconda volta, Liutprando sembrava pronto a piombare su Roma. Tutta l’eloquenza del papa era stata spesa allora senza alcun risultato. Liutprando, per Carlo Martello, era un alleato, il cui concorso, nel 738, gli era stato prezioso contro le bande saracene, che infestavano allora la Provenza: il principe francese si era rifiutato di marciare contro di lui per il solo scopo di compiacere il pontefice. Ma Pipino non aveva gli stessi motivi per astenersi. Egli, al contrario, aveva bisogno, dopo il colpo di stato al quale doveva il titolo di re, di farsi grande agli occhi dei suoi contemporanei; e una strettissima alleanza con il papato con era forse un eccellente mezzo per incutere rispetto a coloro che erano ancora propensi a contestargli il potere?

Il papa, d’altronde, mise in atto, per convincerlo, una straordinaria attività, e non arretrò dinanzi ad alcun sacrificio di amor proprio. Dopo aver sollecitato per iscritto, in termini insistenti, questo principe, che non era alla fin fine, che un “parvenu” ed un usurpatore, egli non esitò ad attraversare le linee longobarde per andare, nel cuore dell’inverno 753-754, fino alla di lui lontana residenza estiva di Ponthion ad implorarlo di persona, a mettersi sotto la sua protezione, a dargli persino un pegno anticipato di riconoscenza, accettando di consacrarlo re di bel nuovo solennemente, e così pure i suoi due figli.

All’inizio dell’estate del 754, le truppe franche si radunavano infine a Quierzy sull’Oise: il re s’impegnò, in loro presenza e in presenza del papa, a esigere con la forza la restituzione di tutto ciò di cui Astolfo si era impadronito. Una breve campagna bastò per indurre quest’ultimo ad un accomodamento: assediato in Pavia, sua capitale, non potendo opporre resistenza, il capo longobardo promise di sgomberare tutti i territori che aveva conquistato da tre anni, sia nell’Esarcato e nella Pentapoli sia nel ducato romano.

Ma a chi sarebbero stati consegnati questi territori? Legalmente, non era dubbio alcuno: il sovrano, dal quale essi dipendevano, era l’imperatore: era a lui, per conseguenza, che dovevano essere resi. Ma da tre anni non vi era più esarca. E poi, era dunque per conto del basileus di Costantinopoli che il papa si era dato tanta pena e che Pipino era venuto a combattere? Poiché quegli non si curava di conservare per sé province così lontane, fu a Stefano II – che non vi aveva alcun diritto – che il re franco le fece “restituire”.

Con un atto formale, del quale disgraziatamente non ci è stato conservato il testo, Pipino consegnò o, per usare il termine singolare che ritorna sovente sotto la penna di Stefano, fece “donazione” a “san Pietro” di tutti i quartieri, le città, le borgate e i territori, che Astolfo era tenuto, per giuramento, a liberare. In cambio, ricevette per sé, come pure per i due figli, Carlo e Carlomanno come benefattori e protettori di Roma, il pomposo e lusinghiero titolo di “patrizio dei Romani”.

 

 

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Un pensiero su “Le origini del potere temporale del Papa

  • 18 Settembre 2019 in 2:54
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    La data di indipendenza del Ducato romano (Patrimonio di S. Pietro) è il 4 luglio 751, data del proclama di Astolfo nel palazzo reale ed esarcale di Ravenna.
    Nel luglio 756 tutto l’ex Esarcato (compreso S. Marino) sarà unito al Ducato romano sotto il Papa. Il grande papa Stefano II, primo sovrano dello Stato pontificio.
    Liberandosi pure dall’ imperatore romano (d’Oriente) Costantino V, che, come suo padre Leone III, lo aveva costretto a questo passo con il suo disinteresse per l’Occidente e la sua persecuzione iconoclasta ed antimonastica.

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