Il manifesto di Sturzo

Sulle pagine de “Il Resto del Carlino” del 17 gennaio 1959, Giovanni Spadolini così parlava di Luigi Sturzo.

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Guglielmo Ferrero scrisse una volta che l’arrivo dei cento deputati popolari nel Parlamento del ’19 rappresentò un “colpo di fulmine” per la borghesia italiana, una sorpresa che disorientò tutti, fedeli, simpatizzanti, amici ed avversari. La verità è che l’affermazione popolare seguiva a un lungo e travagliato periodo di preparazione, sotterranea od aperta, a un’opera di raccolta e di organizzazione dei cattolici italiani che era passata attraverso le fasi più diverse, il ribellismo, l’astensione, la partecipazione condizionata alle urne, l’abrogazione del “non expedit”, la guerra. Gli intellettuali dell’Italia liberale (e nonostante il suo radicalismo e filosocialismo, Guglielmo Ferrero non faceva eccezione) non erano stati mai capaci di valutare nella sua importanza il fenomeno cattolico, di tenere nella giusta considerazione gli esponenti qualificati di quella larga parte dell’opinione pubblica italiana che si appellava ancora “cattolica”, a malgrado delle intransigenze e delle repressioni del Regno.
In generale si era abituati a dividere i cattolici in due categorie dominanti: i “clericali” puri e semplici, i legittimisti, i papalini, i borbonici, i “laudatores temporis acti”, i membri dell’aristocrazia e della borghesia nera, coloro che chiudevano i portoni il 20 settembre e inalberavano le insegne del lutto, coloro che veneravano in casa l’immagine di Pio IX e ostentavano la loro obbedienza al Vaticano, e gli altri, i “cattolici inseriti”, i conciliatoristi, i “collaborazionisti” in pectore, i “ralliés” alle istituzioni monarchiche, i moderati che riuscivano ad unire, nel segreto della coscienza, la devozione al Re con l’ossequio alla religione, coloro che vagheggiavano l’intesa fra Trono e Altare, coloro che costituivano in un certo senso le truppe di riserva del liberalismo, gli alleati di tutte le cause dell’ordine, i provvidenziali “gentilonizzati” di domani. A nessun liberale di destra o di sinistra, sonniniano o giolittiano, radicale o radico-socialista, veniva in mente che il cattolicesimo politico potesse presentarsi una volta con le proprie schiere, con i propri programmi, con le proprie bandiere, potesse scendere sul campo delle forze organizzate con tutto il peso della propria autorità e delle proprie tradizioni.
Il primo esperimento di “democrazia cristiana” sembrava confermare quelle valutazioni. Romolo Murri si era proposto di fondare un partito cattolico, di articolare un’azione politica dei cattolici al di fuori degli schemi tradizionali del clericalismo temporalista, del legittimismo “protestatario”; ma si era scontrato nella resistenza insuperabile delle gerarchie ecclesiastiche e del Papa. Eppure, non vi era nulla di più ingannevole. I quaranta o cinquant’anni di iniziativa cattolica a margine della politica, dal Congresso di Venezia nel 1874 allo scioglimento dell’Opera dei Congressi, dall’Unione elettorale all’Azione cattolica vera e propria, erano stati decisivi, avevano elaborato una coscienza di autonomia e di responsabilità, avevano addestrato e temprato le nuove “équipes” dirigenti, i quadri disposti a tutto osare, nello sforzo di affermare i propri princìpi, di attuare le proprie rivendicazioni. Pur con tutte le sue pregiudiziali guelfe, medievaleggianti e corporativistiche, il prete marchigiano portava nel suo movimento un’aria nuova, uno spirito nuovo di audacia e di coraggio, una volontà di trasformare le strutture esistenti, di compenetrarle con gli ideali cristiani, di cambiare l’asse del paese, attraverso la “rentrée” delle antiche masse sanfediste e reazionarie nello Stato; solo qualche socialista, come Turati, capì l’importanza di quel disegno, ne intravvide i possibili sbocchi, le conseguenze lontane.
Nella sua lotta col vecchio mondo dell’ “Opera dei Congressi”, nella polemica aspra e spietata col conte Paganuzzi, Romolo Murri anticipava quello che sarebbe stato il passaggio obbligato dei popolari, poneva l’accento sul programma riformatore, istituzionale ed “organico” di un partito cattolico, che non si limitasse alla carità e alla beneficenza. Se la Chiesa sconfessò l’inquieto apostolo delle “Battaglie d’oggi”, se Pio X condannò la sua “Lega democratica nazionale” e disperse gli integralisti ante litteram, ciò avvenne perché il Murri rischiava di confondere i due termini necessariamente distinti, l’azione cattolica e l’azione dei cattolici, l’impegno religioso del credente e la vocazione sociale del militante, la sfera della Chiesa e quella dello Stato, commettendo, a rovescio, lo stesso errore dei laicisti estremi. Ma Luigi Sturzo, nel momento stesso, nello storico momento in cui si accingeva a lanciare il suo appello ai liberi e ai forti il 19 gennaio del ’19, utilizzava tutte le esperienze, positive e negative, del suo predecessore. È un legame di continuità, che è stato ormai riconosciuto e consacrato, e proprio da entrambi i protagonisti, dagli avversari di ieri riconciliati e riuniti nel giudizio della storia.
Sono, oggi, quarant’anni esatti. Ma quanta storia è passata dal giorno in cui Luigi Sturzo lanciò quel manifesto, il 19 gennaio del 1919? Un piccolo albergo della capitale, là vicino al Pantheon, nella Roma di più stretta e tenace osservanza cattolica, fra memorie e glorie papali, fra negozi di immagini sacre e librerie di opere devozionali e agiografiche, all’ombra dell’antico Collegio Romano: il “Santa Chiara”. Poche le personalità presenti, nella stanza oscura scelta a sede della storica riunione: ma ognuna rappresentativa di un determinato indirizzo del movimento cattolico, ognuna interprete di un mondo, di una tradizione, di un certo ambiente.
Cavazzoni clerico-moderato lombardo, con tutte le chiusure, e le intransigenze della sua terra, con un patrimonio di esperienze amministrative maturate nei consigli comunali, nella lunga lotta per la riconquista dell’ “Italia reale”; Rodinò portavoce dei ceti cattolici meridionali, che non avevano mai aderito al “non expedit”, che non avevano mai rotto con lo Stato liberale, che avevano salvaguardato i ponti con la Monarchia pur nel periodo del travaglio giacobino e del dilaceramento delle coscienze; Santucci, esponente caratteristico e compiuto del movimento cattolico nella capitale, di quel filone romano che dalla “Federazione piana” si era spinto fino alle affermazioni e alle conquiste dell’ “Opera dei Congressi” passando attraverso l’esperienza del “Conservatore” di Stuart, sempre in equilibrio fra intransigenza e moderazione, sempre in bilico fra le due Rome e in fondo deciso a non approfondire i contrasti, a non allargare le ferite (spirito di distensione e di collaborazione che aveva trovato il suo perfetto simbolo in Filippo Crispolti).
Accanto ai nomi di pace, di concordia, altri nomi che rievocavano battaglie aspre e difficili di un passato non lontano; il conte Grosoli, per esempio, che era stato l’ultimo presidente dell’ “Opera” prima della grande ventata dello scioglimento partita dalla Curia di Pio X, l’aristocratico paziente e comprensivo che aveva assecondato i fermenti dei giovani, che avrebbe voluto evitare la scissione di Murri, che sperava di contenere le inquietudini del modernismo nell’ambito dell’ortodossia. Nome che aveva suscitato tante speranze, alimentato tante polemiche, dieci o quindici anni prima; nome che aveva simboleggiato i fremiti di autonomia dalle direttive di Papa Sarto ai tempi della famosa “avvertenza” ai giornali cattolici nel 1912; ma che ora rientrava nella lotta politica con discrezione, quasi in punta di piedi, in attesa che Giolitti, un anno dopo, lo facesse senatore e, incontrando Crispolti per i corridoi di Palazzo Madama, si felicitasse per l’ingresso dell’antico notabile clericale e intransigente nella roccaforte della monarchia, nel palladio delle istituzioni.
Assente un cattolico che molto aveva contribuito alla conciliazione con lo Stato, il cattolico “giolittiano” per eccellenza, Filippo Meda; ma rappresentato al “Santa Chiara”, almeno idealmente, da un antico compagno di lotte nella democrazia cristiana lombarda, da un vecchio adepto della “Chiesa albertariana” già passato, come la maggioranza degli antichi militanti ambrosiani, alle tesi del possibilismo istituzionale e del moderatismo politico, Angelo Mauri. Riflesso e compendio, in quel momento, di una generazione che molto aveva lavorato per superare lo steccato fra Chiesa e Stato, che da Milano aveva intrecciato i primi fili della collaborazione silenziosa, che fin dal 1901 aveva brindato all’unità d’Italia, alle “pagine gloriose” del nostro Risorgimento (si ricordi l’episodio di Paolo Arcari).
Presenti anche le regioni che minor impulso e minor contributo avevano dato al vecchio movimento cattolico, come Toscana ed Emilia insieme rappresentate, e quasi simboleggiate, da Giovanni Bertini, senese di nascita e bolognese d’adozione; il Piemonte pur chiuso nel suo lealismo dinastico, il Piemonte di Don Margotti e di Stefano Scala e dell’Italia reale, incarnato da un professionista di successo nella vita locale, da un avvocato del Cuneese che conosceva tutti i misteri della politica giolittiana, da Giovanni Battista Bertone; il vecchio Veneto fedelissimo, il Veneto che aveva dato le gemme più splendide al movimento cattolico, il Veneto che aveva ospitato per decenni la presidenza dell’ “Opera dei Congressi”, impersonato da un più giovane avvocato che aveva fatto le sue prove nelle file dell’Unione popolare, da Umberto Merlin.
E accanto ai professionisti, agli avvocati, ai luminari del foro – a coloro che costituivano già il tessuto di una nuova borghesia cattolica – un agitatore sindacale, un animatore delle lotte sociali, un antico operaio tipografo che aveva speso tutta la sua vita – una vita retta ed intensa – nell’organizzazione di cooperative e di sindacati confessionali, i soli consentiti dal pontificato di Pio X, il comasco Achille Grandi: uomo di equilibrio, di grande buon senso, pronto ad opporsi agli estremismi e agli utopismi che più tardi si infiltreranno nello stesso popolarismo, che favoriranno dissensi e lacerazioni.
I filoni più diversi confluivano così nel novo partito popolare, nel partito che sorgeva, quarant’anni fa, nelle stanze dimesse del “Santa Chiara”: tutti cementati e vivificati da un uomo solo, da un sacerdote che non aveva mai disperato neppure nelle ore della grande repressione anti-leoniana, da un amico di Romolo Murri che non aveva seguito l’inquieto sacerdote marchigiano sulla via dell’eresia, da un cattolico attento ai problemi concreti che portava nella milizia politica tutte le insoddisfazioni e le inquietudini del suo Mezzogiorno, da un combattente che aveva alzato fin dall’alba del secolo la bandiera della “democrazia cristiana” e non l’aveva mai ammainata, neppure ai tempi del Patto Gentiloni: da Don Luigi Sturzo.
Oggi Sturzo è il solo sopravvissuto dei convenuti al “Santa Chiara”, insieme con due anziani senatori dell’attuale D.C., Bertone e Merlin: egli che non è neppure iscritto alla D.C., che è senatore a vita per nomina presidenziale, che è critico acerbo e pungente della nuova generazione democristiana, che è distaccato da lotte di corrente e non di corrente, del partito e della stessa Chiesa.
Eppure non è difficile immaginare quale commozione, quale eco, questa data suscita nel cuore del grande vegliardo intrepido. Sturzo ricorderà il “colpo di fulmine” che tanto aveva impressionato Guglielmo Ferrero; quello stupore incredulo delle vecchie classi liberali pari solo all’aspettazione messianica degli antichi ceti cattolici sempre rimasti fedeli alla bandiera crociata. Cattolicesimo politico e cattolicesimo sociale, Chiesa e democrazia, autonomia dei cattolici nella vita pubblica e poteri del magistero pontificio: tutti problemi di allora, che sono, a quarant’anni di distanza, in una prospettiva tanto mutata, ancora problemi di oggi. Quasi a ricordarci il significato e il valore di questa data. Ma anche i suoi limiti.

 

 

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