La Battaglia di Forlì

Sul finire del Duecento, Forlì appariva città prospera e combattiva, né Bologna, né Firenze ne avevano avuto ragione con le armi. Dopo la Battaglia del Ponte di San Procolo, Bologna s’era affrettata a riallestire un esercito col quale era riuscita a togliere Faenza ai domini forlivesi grazie a Tibaldello Zambrasi, che tradì aprendo le porte della città al nemico, ma ancora una volta però Forlì era riuscita a riprendendosi Faenza con l’iniziativa del condottiero Guido da Montefeltro.

A Bologna non restò che sollecitare l’intervento di Papa Martino IV. Forlì fu mostrata ai suoi occhi come la capitale dei ghibellini, la ragione delle ribellioni delle altre città di Romagna, la terra che aveva dato riparo a tanti nemici del papato, ciò in effetti non era lontano dalla verità.

Il pontefice allora nominò Giovanni d’Appia conte e rettore di Bologna e della Romagna, investendolo pure della carica di generale delle armi della Chiesa, carica che poi questi affidò al fratello Guido. I bolognesi, con finanziamenti pontifici, armarono un potentissimo esercito, per lo più fatto venire d’Oltralpe, e Forlì, spaventata, inviò i suoi ambasciatori al papa che non volle neppure riceverli. Non restava altro da fare che prepararsi ad una nuova guerra.

La mura della città furono fortificate, le torri munite di provvigioni e manipoli d’armigeri, si acquistarono armi e si ingaggiarono uomini. Nel mentre, Giovanni d’Appia avanzò con le se truppe distruggendo i raccolti delle campagne ed intimando da subito la resa a Forlì, ricevendo subito un rifiuto. Appiccò allora il fuoco al Borgo Valeriano e mosse il primo assalto. Fu respinto lasciando nel fossato della città oltre trecento dei suoi uomini, fra i quali pure Tibaldello Zambrazi, il cui cadavere, riconosciuto, fu fatto a brandelli ed esposto dalle torri.

Giovanni d’Appia costruì cinse d’assedio la città e s’accampò fra Cesena, Bertinoro e Forlimpopoli per costringere i forlivesi alla resa per fame. In effetti per loro non fu semplice mantenere oltre diecimila fanti e quattromila cavalieri privi di continuo foraggiamento. Tentarono allora di accordarsi col pontefice che però li respinse ancora.

Dopo alcuni mesi d’assedio, con la città stremata dalla fame e dalle privazioni sul punto di arrendersi, il condottiero Guido da Montefeltro giocò l’ultima carta a sua disposizione e tese una trappola all’esercito guelfo.

Come prima cosa volle ridestare l’entusiasmo nel suo popolo e, nel giorno della festa di San Mercuriale, stabilì un magnifico torneo, e, fatta la rassegna delle milizie, le fece sfilare alla vista del popolo, che acclamò fragorosamente, le fece uscire per Porta San Pietro per farle poi rientrare da Porta dei Cotogni. Riuscì così a rinfrancare gli spiriti della cittadinanza e dei senatori che appoggiarono il suo piano intraprendente.

Montefeltro consultò l’astrologo Guido Bonatti, chiedendogli quale sarebbe stato l’esito della battaglia. Bonatti osservò che Marte entrava in Capricorno, la costellazione alla quale era legato il popolo forlivese. Spinse quindi Montefeltro allo scontro, profetizzando la vittoria ed anche il proprio ferimento.

All’alba dell’1 maggio del 1287 Guido da Montefeltro condusse il suo esercito fuori la città per Porta Valerina, altri mossero da Porta Santa Chiara alla volta di San Bartolo senza però far ancora varcare il fiume, infine un’ultima schiera uscì da Porta San Pietro.

Giovanni d’Appia aveva una parte dell’esercito a San Martino, l’altra alla Rovere, ma quando vide le porte spalancate e sguarnite, come a sua insaputa aveva ordinato Guido da Montefeltro, vi entrarono credendone i difensori in fuga. I francesi furono ben accolti dal popolo, forniti di cibo e vino e non sospettarono nulla di quanto stava per accadere. Una campana suonò e nella città rientrò l’esercito forlivese attaccando i francesi che bivaccavano. Altre schiere attaccarono gli accampamenti alla Rovere ed anche qui i nemici furono sbaragliati.

Giovanni d’Appia rimase ucciso tra duemila dei suoi.

L’evento fu ricordato da Dante Alighieri nella Divina Commedia: “la terra che fe’ già la lunga prova e di Franceschi sanguinoso mucchio” (Inferno, XXVII, 43-44).

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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