L’imperatore Galba
Gaio Svetonio Tranquillo, in “Vita dei Cesari”, ci lascia questa dettagliata biografia dell’Imperatore Servio Sulpicio Galba.
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A Nerone successe Galba, che non aveva nessuna relazione di parentela con la famiglia dei Cesari. Si segnalava bensì senza dubbio per illustre e antica prosapia: tanto che nelle iscrizioni ai piedi delle statue potè vantarsi pronipote di Quinto Catulo Capitolino; e poi, salito al principato, nell’atrio del palazzo collocò un albero genealogico nel quale faceva risalire fino a Giove l’origine paterna e quella materna fino a Pasifae, sposa di Minosse. Sarebbe lungo proporre i singoli ritratti e i fasti dell’intera progenie. Mi limiterò a qualche cenno sulla famiglia. Colui che tra i Sulpici portò per primo il soprannome di Galba, donde e da quali motivi lo trasse non è ben chiaro: secondo alcuni per aver dato alle fiamme una città della Spagna, invano da lungo tempo assediata, grazie a certe fiaccole spalmate della resina detta galbano; secondo altri, per aver usato, durante una lunga malattia, del galbeo, cioè un medicamento avvolto in una fascia di lana. Per i più avrebbe avuto un grosso faccione, ciò che i Galli dicono galba o, al contrario, sarebbe stato smilzo come certi bruchi che nascono nei querceti e che si chiamano galbe. La casata ebbe lustro da Servio Galba che era stato console e fu il più eloquente tra gli oratori del suo tempo. Di lui si dice che, ottenuto dopo la pretura il governo della Spagna, per aver fatto scannare a tradimento trentamila abitanti del luogo fosse all’origine della rivolta di Viriatos. Un suo nipote, vistosi rifiutare la carica di console, divenne ostile a Giulio Cesare, di cui pure era stato luogotenente in Gallia, e cospirò con Bruto e Cassio. Perciò fu condannato in base alla legge Pedia.
Da quest’ultimo Sulpicio discendono il nonno e il padre dell’imperatore Galba. Il nonno, segnalatosi più come studioso che per le cariche ricoperte (non andò infatti più in là della pretura), pubblicò un’opera storica ben congegnata e diligente. Il padre, dopo aver avuto il consolato, pur essendo di piccola statura, gobbo e dotato di modeste facoltà oratorie, esercitò attivamente l’avvocatura. Ebbe due mogli: prima Mummia Acaica, nipote di Catulo e pronipote di Lucio Mummio, il distruttore di Corinto; poi Livia Ocellina, bella oltre che ricchissima. Eppure – si dice – era stata proprio lei a volerlo per via della nobiltà dei suoi natali; anzi con ancor più impegno da quando, davanti a tante insistenze, lui si era spogliato e a tu per tu le aveva rivelato le sue deformità, e questo perché non sembrasse che, tenendola all’oscuro di qualcosa, la volesse ingannare. Da Mummia Acaica gli erano nati due figli, Gaio e Servio. Gaio, il maggiore, lasciò Roma dopo aver sperperato i suoi averi e, poiché Tiberio gli aveva proibito di concorrere al proconsolato nell’anno in cui pure gli spettava di diritto, si suicidò. L’imperatore Servio Galba nacque sotto il consolato di Marco Valerio Messala e Gneo Lentulos, il 24 dicembre, in una villa posta su un colle nei pressi di Terracina, sulla sinistra per chi va in direzione di Fondi. Adottato dalla matrigna Livia Ocellina ne assunse il nome e il soprannome di Ocellare; cambiò pure il prenome, giacché prima di giungere al principato si faceva chiamare Lucio al posto di Servio.
Si sa che, quando era ancora un ragazzo, mentre, standosene tra i coetanei, porgeva il saluto ad Augusto, il principe gli fece il ganascino dicendogli: «Anche tu, figlio mio, assaggerai questo nostro potere». Ma anche Tiberio, quando seppe da un oracolo che Galba sarebbe diventato imperatore, però da vecchio, «Viva pure – esclamò – dal momento che la cosa non ci riguarda». Anche suo nonno, mentre stava compiendo un sacrificio propiziatorio contro il fulmine, si vide portar via da un’aquila fin sulle fronde di una quercia rigogliosa le viscere rituali che aveva tra le mani. Gli fu vaticinato che alla famiglia era concesso un potere sommo ma tardivo; e lui prendendola in burla: «Già, quando la mula avrà partorito». Più tardi, quando Galba si trovò impegnato nell’insurrezione, nulla potè rincuorarlo quanto il sapere, appunto, del parto di una mula; e mentre gli altri inorridivano come di fronte a un prodigio sinistro, egli solo lo intese nel senso più favorevole, memore del sacrificio e delle parole di suo nonno. Presa la toga virile, sognò la Fortuna che gli diceva di essere stanca di stare in piedi davanti la sua porta: se non la faceva entrare, e alla svelta, si sarebbe data al primo che incontrava. Svegliatosi e aperto l’atrio, trovò sulla soglia una statua in bronzo della dea alta più di un cùbito. Se la mise in grembo e, portatala a Tuscolo dove usava passare l’estate, le consacrò un’ala della casa, venerandola poi con preghiere che recitava una volta al mese e con veglie rituali in ogni anniversario.
Inoltre, pur essendo ancora giovane, con grande puntiglio volle mantenere l’antico costume di Roma, ormai caduto in disuso e radicato solo in casa sua, per cui due volte al giorno domestici e liberti dovevano presentarsi a lui tutti insieme e dirgli, uno alla volta, «buongiorno» al mattino e, al vespro, «buonasera».
Tra gli studi liberali si dedicò anche al diritto. Nel frattempo si sposò; ma, persa la moglie Lepida e anche i due figli avuti da lei, volle rimanere in solitudine e non si lasciò più tentare da nessuna proposta: nemmeno da quelle di Agrippina, che, vedova per la morte di Domizio, in tutti i modi aveva cercato di suscitare l’interesse di Galba, fin da quando era ancora ammogliato e non vedovo; tanto che in una riunione di donne era stata aspramente redarguita e persino schiaffeggiata dalla madre di Lepida. Ebbe una particolare venerazione per Livia, la moglie di Augusto, dei cui favori, finché era viva, si era valso assai e che, quando morì, per poco non lo rese ricco col suo testamento. Infatti, tra i vari eredi, si era vista assegnare la parte più cospicua del patrimonio: ben cinquanta milioni di sesterzi. Ma, poiché tale somma risultava solo da un appunto e non era esplicitata in tutte lettere, Tiberio, erede pure lui, fece ridurre il lascito a cinquecentomila sesterzi. E alla fine Galba non riscosse neppure questi. Iniziò la carriera pubblica prima dell’età prevista dalla legge. In qualità di pretore, incaricato di organizzare i Ludi di Flora, presentò un nuovo genere di spettacolo: elefanti funamboli. Quindi per quasi un anno fu governatore della provincia di Aquitania. Più tardi ebbe per sei mesi un consolato ordinario; e gli accadde di succedere nella carica a Lucio Domizio, padre di Nerone; mentre a lui subentrò Salvio Otone, padre di Otone: quasi un segno del destino, per cui egli si trovò poi ad essere imperatore tra il figlio dell’uno e il figlio dell’altro.
Da Gaio Cesare (Caligola n.d.r.) fu designato al posto di Getulico.
L’indomani del suo arrivo presso le legioni, poiché i soldati applaudivano a una cerimonia solenne, egli glielo proibì mediante un ordine del giorno in cui si specificava che dovevano tenere le mani sotto la mantellina. Subito per l’accampamento circolò un motto: “Soldato impara a fare il soldato: ora c’è Galba, non più Getulico”.
Con la stessa severità scoraggiò le domande di licenza. Tenendoli in continuo esercizio, ridette nerbo a reclute e veterani; quindi, fermati in tempo i barbari che già si spingevano fin dentro la Gallia, alla presenza dello stesso Caligola offrì di sé e del suo esercito tali prove che, di tanti reparti fatti affluire da tutte le province dell’impero, nessuno seppe guadagnarsi premi o riconoscimenti maggiori. E personalmente si distinse in modo particolare quando, conducendo una manovra sul campo, tutto armato di scudo scortò il carro imperiale sempre a passo di corsa per ben venti miglia. Diffusasi la notizia dell’uccisione di Gaio, molti lo incitavano ad approfittare di quella opportunità. Ma egli preferì starsene tranquillo. Per questo motivo risultò assai gradito a Claudio, il quale lo accolse nella schiera dei suoi amici con tanto onore che, quando Galba fu colto da un improvviso malore, neppur troppo grave, si decise di differire la data della spedizione in Britannia. Senza che si ricorresse al sorteggio, ebbe per due anni 21 il proconsolato in Africa, designato espressamente a riorganizzare quella provincia che era agitata sia da disordini interni che da scorrerie di barbari. Egli vi riportò la stabilità dando prova di un grande senso del rigore e della giustizia anche nelle cose di poco conto. Ad esempio, un soldato era sotto accusa per aver venduto – durante una spedizione in cui le vettovaglie s’erano ridotte all’osso – l’ultimo moggio di grano per cento denari. Galba impose che, quando costui fosse rimasto senza viveri, nessuno gli portasse soccorso; e il tale morì di fame. In una causa dove si discuteva della proprietà di una giumenta, poiché le prove e le testimonianze erano da entrambe le parti inconsistenti e difficile quindi l’accertamento della verità, sentenziò che la bestia fosse portata a capo coperto presso lo stagno dove era solita abbeverarsi: qui – toltole il cappuccio – sarebbe stata assegnata a colui verso il quale, lasciando l’abbeveratoio, si fosse spontaneamente diretta.
Per le imprese compiute in Africa e prima ancora in Germania ricevette le insegne trionfali e ben tre cariche sacerdotali: infatti fu accolto tra i quindecemviri, nel collegio dei Tizi e in quello degli Augustali. Da allora fin circa alla metà del principato di Nerone visse per lo più in disparte; ma non si metteva mai in viaggio, e nemmeno a passeggio in lettiga, senza portarsi appresso su un carro un milione di sesterzi in oro. Finché, mentre si trovava nella sua villa di Fondi, gli venne offerto il governo della Spagna Tarragonese.
Ora accadde che, appena giunto nella provincia, mentre stava compiendo un sacrificio all’interno di un santuario, uno degli inservienti, un ragazzo che reggeva il turibolo, diventò improvvisamente tutto bianco di capelli. Non mancarono le interpretazioni secondo cui il prodigio significava un mutamento della situazione politica e che a un giovane sarebbe subentrato un anziano: come dire, lo stesso Galba a Nerone. Di lì a poco un fulmine cadde su un lago della Cantabria: vi si scopersero dodici scuri, segno indubitabile del potere sovrano.
Per otto anni resse la provincia in modo incerto e disuguale. Al’inizio si mostrò rigido e intransigente e, anche nella repressione dei reati, davvero eccessivo. A un cassiere che maneggiava il denaro in modo truffaldino fece tagliare e inchiodare sul banco le mani. Condannò alla crocefissione un tutore perché aveva avvelenato il pupillo subentrandogli nelPeredità: e siccome quello si appellava alla legge sostenendo che era cittadino romano 25, quasi ad alleviargli la pena, per sua consolazione e per rispetto alla sua dignità, diede ordine di sostituire la croce e di piantargliene una molto più alta di tutte le altre e pitturata di bianco. A poco a poco inclinò invece all’indolenza e all’inerzia per non offrire a Nerone alcun pretesto e perché – come diceva – «nessuno è tenuto a render conto di quello che non fa». Mentre presiedeva una riunione a Cartagine Nova, venne a sapere che le Gallie si erano sollevate e che il governatore del’Aquitania invocava aiuto. Giunse anche una lettera di Vindice, che lo esortava a farsi guida e difensore dell’umanità.Senza troppo esitare accolse l’invito, sia per timore che per speranza: aveva in effetti potuto intercettare segrete missive di Nerone ai suoi agenti con l’ordine di eliminarlo. Ma lo sostenevano anche, con gli auspici e i presagi più favorevoli, le profezie di una giovane della nobiltà: tanto più che un sacerdote di Giove, ispirato da un sogno, aveva scoperto nei penetrali del santuario di Clunia che quegli stessi vaticini collimavano con gli oracoli pronunciati da una vergine profetessa duecento anni prima. E la sostanza di tali profezie era che sarebbe sorto un giorno dalla Spagna un principe signore del mondo. Salì dunque alla tribuna come se dovesse provvedere a un affrancamento di schiavi. Collocati davanti al palco il maggior numero di ritratti di quanti erano stati vittime delle persecuzioni neroniane e alla presenza di un giovane patrizio fatto appositamente venire dalla più vicina isola delle Baleari dove era in esilio, deplorò la condizione dei tempi e, acclamato da tutti come imperatore, si dichiarò rappresentante del Senato e del Popolo di Roma. Quindi, ordinata la sospensione dell’attività giudiziaria, arruolò anche presso la popolazione locale legionari e ausiliari da aggiungere al suo vecchio esercito che contava ormai una sola legione, due squadroni di cavalleria e tre coorti. Istituì inoltre una sorta di senato con le personalità più in vista per saggezza ed età, alle quali far ricorso tutte le volte che fosse necessario consultarsi sulle questioni più importanti. Con alcuni giovani dell’ordine equestre organizzò un corpo scelto – mantenendo l’uso dell’anello d’oro si sarebbero chiamati gli eletti – incaricato di montare la guardia davanti alla sua camera al posto dei militari. Infine lanciò un proclama alle province sostenendo la necessità di collaborare nei particolari come negli intenti generali e invitando ciascuno, secondo le proprie possibilità, a impegnarsi in favore della causa comune. Più o meno in quel periodo, mentre attendeva a fortificare la località che aveva scelto come base delle operazioni, fu rinvenuto un anello di antica fattura: recava una gemma su cui era incisa l’immagine della Vittoria ornata di trofeo. Ecco anche approdare a Dertosa una nave alessandrina carica d’armi, ma priva di timoniere, senza ciurma o altro equipaggio: sicché a nessuno parve dubbio che la guerra intrapresa era giusta, santa, voluta dagli dei. Ma all’improvviso e inopinatamente tutto il disegno sembrò sconvolto. Mentre Galba si avvicinava al campo trincerato una delle due squadre di cavalieri, pentitasi di aver mutato giuramento, tentò la defezione, e solo a fatica fu richiamata al dovere. Ancora: gli schiavi che Galba aveva avuto in dono da un liberto di Nerone, in realtà preparati al tranello, per poco non riuscirono a ucciderlo mentre, diretto ai bagni, passava per le viuzze del centro: se non che, sorpresi a incitarsi l’un l’altro a non perdere l’occasione, e richiesti di rivelare qual era l’occasione di cui parlavano, sotto tortura si indussero a confessare.
A tanti pericoli si aggiunse la morte di Vindice. Galba ne fu disperato, come se avesse perduto ogni risorsa, e mancò poco che non si togliesse la vita. Ma sopraggiungendo nuovi dispacci da Roma, come seppe che Nerone era stato ucciso e che tutti avevano fatto a lui atto di sottomissione, depose il titolo di governatore e assunse quello di Cesare. Quindi si mise in cammino in tenuta da generale con una lama appesa al collo che gli scendeva sul petto; e non volle riprendere la toga civile prima di aver eliminato quanti macchinavano la ribellione: a Roma il prefetto del pretorio Ninfidio Sabino, il governatore della Germania Fonteio Capitone e quello d’Africa Clodio Macro. Lo precedeva fama di crudeltà e insieme di cupidigia. In Spagna e in Gallia aveva punito con tributi più pesanti, e in qualche caso con l’abbattimento delle mura, le città che avevano tardato a passare dalla sua parte; ne aveva condannato a morte governanti e amministratori assieme alle mogli e ai figli. A Tarragona aveva ordinato la fusione di una corona d’oro di quindici libbre appartenuta al tempio di Giove e donatagli dagli abitanti; non solo: aveva fatto esigere anche le tre once che mancavano al peso. Tale fama fu confermata e anzi accresciuta non appena ebbe fatto il suo ingresso in Roma. Nerone aveva inserito nell’esercito regolare alcuni marinai togliendoli dai remi: Galba volle riportarli alla condizione precedente; e siccome quelli vi si rifiutavano e anzi insistevano caparbiamente per ottenere il riconoscimento delle aquile e delle insegne, non solo li disperse con una carica di cavalleria ma li sottopose anche alla pena della decimazione. Così pure sciolse la coorte germanica istituita un tempo come guardia del corpo dei Cesari e che attraverso molte prove si era dimostrata sempre fedele: la rimandò in patria senza alcun compenso, come rea di troppe simpatie nei confronti di Gneo Dolabella, presso la cui villa aveva gli alloggiamenti.
Giravano anche sul suo conto alcune storielle, non si sa se vere o false, che lo mettevano alla berlina. Si diceva ad esempio che avesse levato ampi lamenti per via di una cena imbandita con troppo sfarzo; che a un suo intendente, mentre gli sottoponeva il registro della contabilità, avesse offerto, in cambio della scrupolosa diligenza, un piatto di fagioli; che al flautista Cano, che gli piaceva immensamente, avesse donato ben cinque denari, presi però di sua mano dalla cassaforte personale.
Per questi motivi il suo arrivo non riuscì proprio gradito. Lo si vide bene a teatro alla prima rappresentazione: è un fatto che, quando gli attori del Patellana intonarono l’aria notissima Viene Onesimo dai campi, gli spettatori in coro continuarono per tutto il resto del brano, ripetendo il verso più volte, mimica compresa. Godette dunque di maggior favore e prestigio nel giungere al potere che nel Fesercitarlo, pur fornendo non poche prove degne di buon principe. Ma le sue virtù non riuscivano mai gradite quanto odiosi invece i suoi vizi. Egli era in balìa di tre figuri che abitavano con lui a palazzo e che non lo lasciavano mai. La gente li chiamava i pedagoghi, ed erano: Tito Vinio , già suo luogotenente in Spagna, uomo di ambizione smisurata; Cornelio Lacone , che da coadiutore era diventato prefetto del pretorio, intollerabile per arroganza e stupidità; il liberto Icelo, da poco insignito dell’anello d’oro e del soprannome di Marciano e che già aspirava alla massima carica concessa all’ordine dei cavalieri. A costoro, che lo assediavano con tutti i loro contrastanti difetti, egli si era consegnato mani e piedi; tanto che gli era difficile esser coerente con se stesso: ora troppo rigido e taccagno, ora remissivo e trascurante più di quanto convenisse a un principe liberamente eletto e per di più della sua età. Per sospetti anche minimi e senza concedere udienza giunse a condannare membri illustri sia dell’ordine senatorio che di quello equestre. Raramente concesse il diritto di cittadinanza romana; quello dei tre figli solo in un paio di casi, sempre a titolo temporaneo e con scadenza predeterminata. Ai giudici che lo pregavano di aggiungere una sesta decuria, non solo oppose un rifiuto, ma anzi tolse anche il privilegio loro concesso da Claudio di non esser convocati per le udienze durante l’inverno e al principio dell’anno. Si riteneva inoltre che avesse in mente di limitare a due anni gli incarichi di senatori e cavalieri e di non offrirli se non a persone disinteressate e capaci di rifiutarli. Per mezzo di una commissione di cinquanta cavalieri provvide alla revoca e al rimborso, fatta salva un’aliquota non superiore al dieci per cento, delle donazioni elargite da Nerone. Il criterio era il seguente: se teatranti o atleti avessero venduto quanto loro concesso in passato, ci si poteva rivalere sui compratori nel caso che i primi, per aver già speso le somme ricavate, non fossero stati in grado di pagare il rimborso richiesto.
Tuttavia, non ci fu nulla che Galba non permettesse di assicurarsi con denaro o procurarsi con favoritismi tramite i suoi amici e liberti: appalti, esenzioni, condanne di innocenti o impunità di colpevoli. Anzi, mentre il popolo di Roma chiedeva a gran voce la testa di Aloto e di Tigellino, egli risparmiò solo loro, proprio le più scellerate tra le creature di Nerone. Peggio ancora: insignì Aloto di una carica assai prestigiosa e, in favore di Tigellino, con un editto strigliò il popolo accusandolo di crudeltà.
Per questi suoi comportamenti l’irritazione era diffusa presso ogni ceto; ma più avvampava il rancore della casta militare. Quando era ancora lontano da Roma, i comandanti avevano promesso alle truppe, all’atto del giuramento di fedeltà verso di lui, un donativo più cospicuo del solito: egli non solo non volle ratificarlo ma anzi, alla prima occasione, si vantò che i soldati lui li sceglieva, non li comprava, e in questo modo finì davvero per esasperarli tutti, dovunque fossero dislocati.
Del resto suscitò preoccupazione e sdegno anche tra i pretoriani, perché ne rimosse subito una gran parte come sospetti di fedeltà a Ninfidio. Ma soprattutto fremeva l’armata della Germania superiore che si sentiva defraudata di un compenso per le operazioni diligentemente concluse contro i Galli e contro Vindice. Così furono proprio questi reparti che osarono per primi rompere l’obbedienza rifiutandosi, il primo di gennaio, di prestar giuramento se non in nome del Senato. E subito mandarono una delegazione presso i pretoriani con questo incarico: l’imperatore nominato in Spagna non era gradito: provvedessero loro a farne eleggere un altro che riscuotesse l’approvazione di tutti gli eserciti. Quando gli fu annunciato questo stato di cose, pensando di essere malvisto non tanto per la sua età quanto per essere privo di una discendenza, tutto d’un tratto in mezzo alla schiera di quanti gli porgevano il saluto prese per mano un distinto giovane della nobiltà, Pisone Frugi Liciniano, che egli già da tempo aveva coperto di onori e che aveva poi sempre indicato nel suo testamento come erede dei suoi beni e del suo nome: chiamandolo figlio lo condusse agli accampamenti e lo adottò davanti agli eserciti schierati. Non fece però nemmeno allora alcun cenno alla questione delle ricompense. Così porse a Marco Salvio Otone ancor più facile pretesto per concretare, nei cinque giorni successivi all’adozione, il suo disegno di rivolta.
Grandi e frequenti prodigi fin dai suoi esordi avevano indicato a Galba quella che doveva essere la sua fine. Mentre lungo tutto il suo cammino di città in città, a destra e a sinistra, venivano immolate vittime sacrificali, un toro tramortito dal colpo della scure, spezzando le funi, si lanciò una volta contro il suo cocchio e, rizzatosi sulle zampe, lo inondò di sangue. E mentre Galba scendeva, un sorvegliante sospinto dalla folla per poco non lo ferì con la lancia. Anche al suo ingresso a Roma e poi nel palazzo fu accolto da un terremoto e da un rombo simile a un muggito. Ma seguirono segni ancor più manifesti. Egli aveva scelto, di tutto il suo tesoro, un monile ornato di perle e di gemme per decorarne la sua Fortuna di Tuscolo. Ma poi d’improvviso, come degno di un tempio più augusto, lo aveva dedicato a Venere Capitolina. La notte seguente gli era apparsa in sogno l’immagine della Fortuna che si lagnava di essere stata privata del dono già a lei destinato e lo minacciava di togliere, lei pure, quanto aveva concesso. Pieno di spavento, sul far del giorno si precipitò a Tuscolo per espiare quel sogno, facendosi precedere dagli inservienti che dovevano preparare il sacrificio. Ma sull’altare non trovò che un po’ di cenere tiepida e, lì accanto, un vecchio con le vesti di lutto che reggeva l’incenso in un bacile di vetro e del vino in un vaso di terra. Si notò anche che, alle calende di gennaio, mentre era intento al rito propiziatorio, gli cadde la corona dal capo e, mentre traeva gli auspici, i polli sacri volarono via. Nel giorno poi dell’adozione, accingendosi Galba a pronunciare il discorso alle truppe, non gli fu posto il seggio militare davanti alla tribuna, come previsto dalla consuetudine, in quanto i servitori se ne erano scordati; e anche in Senato la sedia curale fu collocata di traverso.
Ancora la mattina che precedette la sua uccisione, mentre stava sacrificando, un aruspice lo avvisò ripetutamente di guardarsi dal pericolo, ché i sicari non erano lontani.
Poco dopo seppe che Otone aveva occupato la sede del pretorio. Ma, sebbene in molti lo spronassero a recarsi colà in tutta fretta – con la sua autorità e con la sua presenza avrebbe ancora potuto imporsi – non seppe decidere niente di meglio che rimanere dov’era e rafforzarsi con reparti di legionari dislocati qua e là in vari alloggiamenti. Ciononostante indossò un giubbetto di lino, senza nascondersi che ben poco poteva giovargli contro tante spade. Alla fine fu tratto fuori da false voci che i congiurati avevano diffuso ad arte per farlo uscire allo scoperto: si diceva, a casaccio, che la faccenda era conclusa, che i ribelli erano stati eliminati, che gli altri accorrevano in folla per congratularsi con lui, pronti alla più completa obbedienza. Per andar loro incontro uscì con tale sicurezza che a un soldato che si vantava di aver ucciso Otone «E con quale ordine?», chiese, proseguendo poi sino al foro. Qui i cavalieri che avevano il compito di ucciderlo, dopo aver lanciato una carica in mezzo alla gente, dispersa che fu la folla dei popolani, si arrestarono un attimo scorgendolo da lontano. I suoi ormai l’avevano abbandonato. Allora, spronando di nuovo, lo trucidarono. Dicono alcuni che al primo assalto egli avesse gridato: «Che fate, commilitoni? Io sono con voi e voi con me», promettendo anche il donativo. Ma i più hanno tramandato che offrì la gola spontaneamente esortandoli ad agire e colpire, se era questo che volevano.
Può destare non poca meraviglia il fatto che nessuno dei presenti tentasse di porgere aiuto all’imperatore e che quanti furono chiamati in soccorso abbiano ignorato l’invito, ad eccezione di un reparto di reduci dalla Germania. Questi, memori di un recente beneficio del principe, che si era prodigato per quanti di loro erano invalidi e malati, accorsero sì, in tutta fretta: ma arrivarono tardi, sbagliando strada per scarsa conoscenza dei luoghi. Fu sgozzato presso il lago di Curzio. E lì rimase, così com’era; finché un fantaccino che tornava dalla distribuzione del grano, deposto il suo fardello, gli tagliò la testa. Poiché per i capelli non poteva afferrarla, se la nascose in grembo, e infine, infilandole un pollice nella bocca, la consegnò a Otone. Questi ne fece dono ai garzoni e ai facchini, che la portarono in giro per il campo infissa su una picca. Tra schiamazzi di scherno ripetevano gridando: «Galba Amorino, goditi la giovinezza», spinti a tale beffarda insolenza soprattutto dalla voce che si era sparsa qualche giorno prima tra la gente: secondo cui a un tale che lodava il suo aspetto come ancora florido e fresco Galba aveva risposto: “Ancor saldo è il mio vigore”.
Da costoro la riscattò per cento monete d’oro un liberto di Patrobio Neroniano, e questi la gettò nel luogo in cui per ordine di Galba era stata eseguita la sentenza contro il suo padrone. Più tardi infine Argivo, uno degli intendenti di palazzo, diede sepoltura a quella testa e al resto del tronco nei giardini privati del principe sulla via Aurelia.
Fu Galba di statura normale, completamente calvo, con occhi celesti, naso aquilino, mani e piedi assai deformati dalla gotta, tanto che non sopportava i calzari né riusciva a svolgere e nemmeno a reggere un volume. Sul fianco destro inoltre gli si era sviluppata un’escrescenza, così prominente che stentava a contenerla con una fasciatura. Era – si dice – un gran mangiatore. D’inverno usava far colazione anche prima che spuntasse il giorno. Ai pasti poi c’era tanta abbondanza che faceva portare in giro a piene mani gli avanzi distribuendone tra quanti stavano di servizio ai piedi della sua mensa.
In materia sessuale era più incline verso i maschi, ma non li voleva se non adulti e vigorosi. Si diceva che in Spagna, quando Icelo, uno dei suoi vecchi amanti, gli annunciò la morte di Nerone, non solo lo accolse – in presenza di tutti – con baci appassionati, ma lo pregò anche di farsi depilare senza indugio e di seguirlo in camera sua.
Morì a settantatré anni, dopo sei mesi di principato. Il Senato, appena possibile, gli decretò una statua da erigersi nel foro, su una colonna rostrata, nel luogo dove era stato ucciso. Ma Vespasiano annullò tale delibera, convinto che Galba l’avesse segretamente inseguito con i suoi sicari dalla Spagna fino in Giudea.