Napoli dal tardoantico alla Guerra Gotica

Napoli fu tenuta in scacco da Alarico ma non cadde nelle sue mani perchè aveva un formidabile sistema difensivo, con mura imponenti che si snodavano per svariati chilometri e solide torri di guardia che cingevano l’intero perimetro urbano e costiero. Questre strutture, rifatte da Valentiniano III nel 425, la protessero anche dalle scorribande dei vandali di Genserico.

Questo popolo fu il primo d’origine germanica a dotarsi di una vera flotta e con essa relegò il Mezzogiorno d’Italia in un perenne stato di terrore. Genserico conquistò nel 455 la Sicilia e saccheggiò Roma per quindici giorni mettendo in fuga l’imperatore Petronio Massimo. Tanto terrore si dissolse solo dopo la vittoria riportata dall’imperatore Maggioriano a Sinuessa, presso l’odierna Mondragone, in provincia di Caserta, nel 458. Indeboliti, ma non sconfitti, nel 464 i vandali ripresero le propri sorrerie sena però mai mettere piede a Napoli.

La città visse senza dubbio una fase di grande bellezza nell’età tardoantica e negli anni di re Teodorico. Le Variae di Cassiodoro Senatore e l’opera di Procopio ci descrivono una Napoli vivace, deputata all’amministrazione del potere giuridico provinciale, con una limitata presenza militare, ridotta a Cuma e nella stessa Napoli, e circondata da un contesto naturale di grande fascino. Abbndonata Pozzuoli, restavano all’antico splendore le terme di Baia: “Baianis litoribus nil potest esse praestantius, ubi contingit et dulcissimis deliciis vesci et impetriabili munere santitatis expleri”. La corona dei monti Lactarius era celebrata per la fecondità della terra, i pascoli ubertosi ed il latte ivi prodotto. A riprova di ciò abbiamo la richiesta che un certo Danus cancellarius avanzò a re Teodato di recarsi a prendere i remedia lactarii montis. L’intera area poteva dirsi ridente e prospera al punto che proprio l’attributo “campana” accompagnava spesso il nome della capitale del regno come sinonimo di ricchezza e benessere. Simmaco stesso aveva avuto proprietà a Napoli, Cuma, Baia e Pozzuoli. Decio aveva una residenza a Napoli, Vettio Agorio Praetestato ne aveva una a Baia e Nicomaco Flaviano ne aveva a Baia e a Pozzuoli.

Della Napoli gota si è scritto invece “Urbs ornata moltitudine civium, abundans marinis terrenisque deliciis, ut dulcissimam vitam te ibidem invenisse diiudices, si nullis amaritudinibus miscearis” (C. Senatore, Variae, VI, 23). Ed ancora: “Praeterea litora usque ad praefinitum locum data iussione custodis tuae voluntati parent peregrina commercia”. La ricchezza del napoletano è confermata dal paragone che Cassiodoro avanzò tra i praetoria di Istria e le ville di Baia considerate il modello ideale delle residenze di lusso. L’area produceva grandi derrate di frumento: “Post eam Campania provincia, non valde quidem magna, divites autem viros possidens et ipsa sibi sufficiens, est et cellarium regnanti Romae” (Expositio totius Mundi et Gentium). Ulteriori notizie apprendiamo infine per quanto concerne l’attività del Vesuvio che eruttò intorno al 509, lanciando ceneri e sconquassando la terra: “Laborat enim hac uno malo terris deflorata provincia, quae ne perfecta beatitudine frueretur, huius timoris frequenter acerbitate concutitur” (C. Senatore, Variae, IV, 50).

Napoli fu pure il teatro di un momento cruciale della guerra tra goti e bizantini. Nel maggio del 536, l’esercito di Belisario attraversò lo stretto di Messina e, sottratta Reghium alla debole guarnigione capeggiata da Ebrimud, genero di Teodato, marciò verso Napoli. Scrive Procopio: “L’esercito procedette per terra per il Bruzio e la Lucaniae la flotta lo seguiva lungo il continente. Giunti in Campania incontrarono una città marittima chiamata Napoli, forte per natura del luogo e con molti Goti di guarnigione”. Belisario poteva contare su circa novemila uomini, i goti in realtà non ne avevano che ottocento, ma godevano del sostegno dell’aristocrazia, del popolo e della comunità ebraica locale. Alle porte della città, Stefano, un ambasciatore napoletano, così si rivolse al condottiero bizantino: “Operi giustamente, o duce, nel guerreggiare innocenti Romani che abitiamo una piccola città, con un presidio di barbari cui pur volendo non potremmo opporci. E v’è di più che costoro sono venuti in nostra difesa lasciando figli, mogli ed ogni cosa di più cara a Teodato. Se dovessero operare alcuncé in vostro favore sarebbero considerati traditori. Aggiungerò in oltre, se m’è dato confessare liberamente la verità, che non è vostro interesse venire contro di noi. Se riuscirete ad impossessarvi di Roma, avrete la Napoli senza alcuna difficoltà; respinti da quella non potrete aver sicurezza neppur tra noi. Così assediandosi spendereste indarno il vostro tempo”. La risposta di Belisario fu così riportata da Stefano ai napoletani: “Non sarete voi Napoletani a giudicare se sia stato buono o male per noi il venire qui; vogliamo solo che voi ponderiate attentamente le conseguenze della nostra decisione. Ora accogliete l’esercito dell’imperatore che viene per liberare voi e gli altri Italiani enon fate vostri i pessimi consigli. Chi va in guerra per sottrarsi alla schiavitù o ad altre infamie è doppiamente fotunato se ha successo perchè conquista la vittoria e la libertà. Chi invece può essere libero senza far guerra, avrà la sciagura della sconfitta e della schiavitù…”.

Napoli però non si arrese, avanzò le sue richiese a Belisario che le accolse, ma poi due cittadini, Pastore e Ascelpiodoto, con un discorso vibrante convinsero la città a resistere. “Come mai siete tanto atterriti sebbene siete al riparo, con provviste e la difesa di un presidio e di solide mura? Belisario non si sarebbe ridotto a certe promesse, se fosse stato sicuro di prendere la città con la forza…”, dissero. Davanti all’opposizione dei napoletani, Belisario diede ordine di fendere in gran silenzio un macigno che ostruiva l’accesso all’acquedotto cittadino, individuato casualmente da un isauro di nome Paucaris, poi, sul far della sera, comandò a quattrocento uomini, capeggiati da Magno, preposto alle milizie a cavallo, e da Enne, duce degli isauri, di percorrere l’acquedotto e irrompere in città. Mandò con loro due suonatori di tromba affinché, giunti alla cinta muraria, potessero al momento opportuno richiamare i suoi che attendevano fuori, guidati da Bessa e Fozio, poi il piano fu messo in pratica. Le guardie alle torri furono sorprese e trucidate, le porte furono aperte e così cadde Napoli, dopo venti giorni di assedio.

Il saccheggio durò tre giorni, poi fu frenato da Belisario con queste parole: “Dio ci ha concesso la vittoria e l’onore dandoci una città mai prima d’ora conquistata, è giusto non essere indegni della grazia e con l’usare umanità verso i vinti, mostriamo invece di averli giustamente superati. Non vogliate portare ai Napoletani un odio sterminato, nè fate che l’avversione per essi passi i limiti della guerra: poichè nessuno dei vincitori odia ormai più i vinti”. Pastore, vedendo la città in mano nemica, ebbe un attacco di aplopessia e morì, Asclepiodoto fu ucciso dal popolo. Belisario marciò verso Cuma, lasciando a Napoli trecento fanti sotto la guida di Erodiano. Benevento si arrese spontaneamente e la strada per Roma fu libera.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: Procopio di Cesarea, Guerre Gotiche; V. A. Sirago, Italia e italianità nelle Variae di Cassiodoro

 

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