Neapolis ultima città greca
Con questo post chiudiamo la serie dedicata alla nascita di Neapolis e al suo affermarsi come ultima città greca in Campania.
Ricapitolando brevemente, abbiamo visto la storia che contrappose Kyme agli Etruschi dal 524 al 474 a.C., abbiamo ripercorso la fondazione della Nea-polis dopo la Battaglia di Kyme nel 474 a.C. con l’aiuto di Syrakuse, abbiamo visto che si distinse da Kyme con una monetazione propria, e divenne dunque indipendente dalla città-madre (metropolis), abbiamo visto che entrò nelle preoccupazioni degli Atheniesi che apportarono tanto all’identità nazionale della città e alle sue tradizioni.
La visita di Diotimo prima del 437 a.C. si chiuse dunque con un rinnovamento generale nelle istituzioni e perfino nei culti della città, come quello alla Sirena, ma anche fuori da Neapolis il mondo cambiava rapidamente.
Quei Kampani che gli Atheniesi non avrebbero voluto ritrovarsi come mercenari nemici durante l’assedio di Syrakuse, una volta scomparsa la dominazione etrusca, occuparono la pianura che da loro prese il nome (il Kampanon) e tutti i territori intorno alle città greche, raggiungendo nei cinquant’anni che vanno dalla Battaglia di Kyme la linea di costa. Fu un processo dapprima lento, poi sempre più rapido, visto che la presa della principale città etrusca, Kapu (odierna Santa Maria Capua Vetere), è solo del 423 a.C.
I due popoli si dedicavano certamente ad attività profondamente diverse, mercanti i greci e agricoltori/allevatori gli Osco/Sanniti, ma era per il controllo dello stesso territorio che si lottava: un mercante potrà vendere le proprie merci a un prezzo più alto, se non deve dipendere dalla controparte per i suoi approvvigionamenti, e un contadino o un allevatore traggono beneficio dalla vastità dei terreni a propria disposizione. Ma va anche ricordato che, prendendo Kapu, anche gli Oschi cominciarono a nutrire velleità commerciali.
Nella sua permanenza a Neapolis, Diotimo era riuscito a rafforzare l’anima democratica della città, già fecondata dal contributo di diversi popoli (Kyme, Syracuse, Athene stessa) e più affine a quella ateniese, mentre Kyme restava un baluardo aristocratico.
Né Neapolis, né Kyme erano città greche sole e lontane da ogni possibile alleato: Dikearchia (Pozzuoli), la “città del giusto governo” fondata dai Sami nel 521 a.C. ed Heraklia (Ercolano) sono esempi di altre città all’epoca in mano greca e che cominciarono a sentire la pressione degli indigeni. Ma ciascuna polis reagì a modo proprio, non ci fu una lega delle città greche contro gli “invasori” Kampani, e questa mancanza di unità è lampante se osserviamo la differenza tra quanto accadde a Kyme e a Neapolis.
La reazione delle due città fu di natura diametralmente opposta: i Kymei, più tradizionalmente aristocratici, non avrebbero mai visto i barbari come loro pari; i Neapolitani li accolsero un poco alla volta, senza affrontare un conflitto che non avrebbero potuto sostenere.
La reazione dei Kymei scatenò una guerra aperta che essi, ormai circondati da ogni parte, non potevano vincere. Già caduta Heraklia, nel 421 a.C. la più antica città greca dell’Italia peninsulare fu presa espugnata, e poco dopo la stessa sorte toccò a Dikerchia. I Neapolitani, al contrario, permisero che i Kampani diventassero cittadini e, col tempo, che raggiungessero le più alte magistrature.
Neapolis divenne dunque una città greco-osca, e come tale non venne percepita come un nemico, era “imparentata” con i “barbari” e visse così, inviolata per altri 900 anni, fino alle guerre gotiche: l’ultima città greca sul Tirreno peninsulare.
Il segreto della sua sopravvivenza è sempre stato questo: la capacità di cambiare per salvare sé stessa, e con sé stessa la propria identità; la capacità di accogliere lo straniero non per diventare come lo straniero, ma per apprendere quanto ci fosse di buono da imparare, e per farlo diventare a sua volta “uno dei nostri”, difensore della napoletanità. Come scrivo nel mio “Neapolis – I Signori dei Cavalli”, di imminente pubblicazione: “fintantoché ci manteniamo un esempio di rettitudine e probità, il barbaro ammira e desidera le nostre ricchezze, ma ancor di più la nostra pace, la nostra tranquillità, la sicurezza delle nostre leggi. Rendiamolo dunque un cittadino, e avremo forgiato il più strenuo difensore delle nostre mura”.
Autore: Marino Maiorino
Fonte foto: dalla rete
Marino Maiorino è astrofisico e romanziere, studioso della Magna Grecia