Il giudizio e la condanna di Corradino di Svevia

Sconfitto a Tagliacozzo, Corradino di Svevia fu condannato alla decapitazione. Fu una pena giusta? Come maturò questa sentenza?

Saba Malaspina, che visse ai tempi di Carlo d’Angiò, riferì che il Re convocò due sindaci da ciascuna città di Terra di Lavoro e Principato Citra affinchè la sentenza di morte potesse apparire pronunciata non da lui ma dalle autorità locali. Saba Malaspina è il solo autore sincrono che narra ciò. Nè gli Annali Genovesi, nè quelli Piacentini, nè quelli Parmensi, nè la Cronaca di Cava, nè altre fonti coeve riferiscono questo.

Bartolomeo da Neocastro scrisse che Carlo d’Angiò fece convocare i “Primati delle Città” non per giudicare Corradino ma solamente per assistere alla sua esecuzione; Ricobaldo da Ferrara non fa alcun cenno di convocazione di sindaci per giudicar Corradino o per assistere all’esecuzione; solamente scrisse che fu radunato un consiglio di giureconsulti nel quale Guido da Suzara diede parere favorevole all’esecuzione; Giovanni Villani non fa cenno a riunioni di sindaci ma sostiene che Carlo d’Angiò “fece per via di giudizio formare inquisizione contro di loro, siccome traditori della corona e nemidi di S. Chiesa”.

La ricostruzione di Pandolfo Collenuccio, un secolo e mezzo dopo i fatti, ripropone l’idea di un consiglio dei sindaci delle prime città del Regno e “tutti, spezialmente quei di Napoli, Capua a e Salerno, consultarono che Corradino fosse morto; benchè sia chi scrive, che il consiglio fu dato secondo che volle Carlo che si desse”. L’autore aggiunse pure che “li Baroni e li gentiluomini Francesi in niun modo vollero prestare assenso nel Consiglio a questa morte; ma che alla fine prevalse la sentenza della pena capitale”.

Non fa menzione della consultazione dei sindaci neppure Angelo di Costanzo che però evidenzia la contrarietà dei francesi alla pena di morte; il Summonte riformula le versioni del Collenuccio e del Villani così come tutti gli storici posteriori come Giannone, Capecelatro e Muratori. Solo l’Abate Placido Troyli sconfessò il Collenuccio negando l’esistenza di un parlamento di sindaci e/o baroni e la loro deliberazione in favore della morte di Corradino. Tutti però han successivamente dato per certo l’esistenza di questo consiglio di rappresentanti di città, solo Giuseppe del Giudice, in “Il giudizio e la condanna di Corradino” del 1876, capovolge tutto.

L’opinione degli scrittori concorda nell’asserire che la decapitazione fu adeguata a l’indole di quei tempi, eppure non era così. La legislazione medioevale in tema di aristocrazia, duelli e teste coronate era molto precisa e per nulla assuefatta alla sete di vendetta e sangue: Corradino infatti fu decapitato perchè fu trattato come un semplice latrone. Riconoscerlo come pretendente al trono voleva dire dubitare del diritto della Chiesa sul reame e della legalità dell’investitura pontificia che Carlo d’Angiò aveva ricevuto con solenne unzione a Roma; riconoscerlo come “prigioniero di guerra” avrebbe implicato il trattamento da pari a pari. In entrambi i casi non si sarebbe potuto mandarlo a morte.

Gli storici allora confondendo i termini giuridici, all’oscuro delle normative del tempo, hanno introdotto il falso del consiglio di sindaci pensando si trattasse di un processo per accusa o inquisizione, non contro “notorii ladri e manifesti invasori”. Corradino fu trattato come come tutti i rei pubblici e notorii e quando il misfatto era manifesto, non c’era bisogno di costruire consigli, non c’era neppure bisogno di un processo, bastava un semplice ordine a voce del Re. Andrea d’Isernia, esperto in legge e consigliere di Carlo II, di Roberto e di Giovanna d’Angiò, scrisse infatti: “Ne’ delitti notorii non ci ha necessità di accusatore o di testimoni, nè si osserva alcun ordine giudiziario; perchè quello che è manifesto, non ha bisogno di pruova. Nei misfatti di maestà e di eresia si procede sempre sine accusatione et sine libello; e quanto il reo è notorio e manifesto, non ci ha bisogno neppure d’inquisizione, perchè la pruova è certa”.

Giuseppe del Giudice sostiene allora, con dovizia di documenti, riflessioni, dettagli ed opportuni rimandi a vicende analoghe, che a Corradino fu negato lo status di “prigioniero di guerra” che gli avrebbe consentito di avere salva la vita, e fu invece giudicato secondo la legge comune. Si applicò per lui a pena prevista dal diritto civile e canonico per gli invasori ed i ladri e non fu un consiglio di sindaci nè di esperti a condannarlo, ma una semplice “sentenza declaratoria” che proclamò lo svevo reo di morte come invasore del Regno, ladro e predone di Chiese e Monasteri e come “reo di Maestà” per aver ucciso Errico di Cosenza, Maresciallo di Francia, collaterale del re, durante la battaglia di Tagliacozzo, pensando si trattasse di Carlo d’Angiò.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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