Architetture del Ventennio

Le architetture del Ventennio riflettono l’animo di un regime in bilico tra rivoluzione e tradizione, spinto ad accettare ciò che appare innovativo e moderno ma alla ricerca di un continuo e propagandistico richiamo a Roma antica. Il fascismo generò così in Italia un’architettura d’impronta monumentale aperta però al razionalismo nella misura in cui esso veniva a coincidere con la ricerca d’un senso d’ordine e austerità.

Con le sue linee rigorose e il solenne carattere della scrittura epigrafica che campeggia sulla sua facciata, il Palazzo della Civiltà Italiana doveva incarnare le eroiche virtù del popolo italiano. “Un popolo di poeti e di artisti di eroi di santi di pensatori di scenziati di navigatori di trasmigratori”, si legge. E’ una citazione estratta da un discorso che Mussolini tenne il 2 ottobre 1935 in segno di sfida contro le sanzioni ventilate dalla Società delle Nazioni all’Italia a seguito della guerra d’Etiopia. Il mondo doveva ammiralo nell’Esposizione Universale indetta a Roma nel 1942, ma la guerra e il crollo del regime annullarono l’evento e misero in crisi l’enfasi retorica di quelle affermazioni. Resta questo parallelepipedo a base quadrata di sei piani, un Colosseo Quadrato, opera imponente, metafisica nel rigore assoluto dei volumi, destinato ad essere immortalato nelle pellicole di Fellini e Greenway come moderno simbolo della città eterna.

Fu il frutto di un concorso bandito nel 1937 in cui gli architetti razionalisti batterono i monumentalisti di Piacentini, arrendendosi alla sua impronta. Il terzetto composto da Giovanni Guerini, Ernesto Lapadula e Mario Romano presentò un progetto capace di unire la volontà di grandezza del regime con la purezza formale e le soluzioni tecnologiche dell’archiettura funzionalista. Presiedeva la commissione esaminatrice proprio Marcello Piacentini che ne fu entusiasta. Lo scheletro è in cemento armato, necessario per sostenere il gioco delle grandi aperture ad arco che caratterizzano l’opera. Gli archi, elemento su cui si basa tutta l’estetica del palazzo, sono poi a tutto sesto, tipici della civiltà etrusco-romana, ancora ad enfatizzare il genio italico. Se l’esterno è improntato ad un’interpretazione classicistica, l’interno è fortemente innovativo, concepito come spazio espositivo. Il palazzo venne inaugurato il 30 novembre del 1940, ma non fu mai utilizzato.

Dal canto suo, anche Piacentini si aprì alle istanze della corrente razionalista presentando un progetto vincente al concorso indetto dal comune di Milano per il nuovo Palazzo di Giustizia. La città stava vivendo un riassetto urbanistico, aveva bisogno di spazi idonei ad accogliere le sale e gli uffici dei tribunali, sino ad allora dislocate in diversi stabili ottocenteschi. Il podestà Marcello Visconti di Modrone restò affascinato dal rigore razionale e dall’estetica della romanità incarnate nell’imponente struttura dalla forma cubica e compatta ideata da Piacentini e fu questo il nuovo Palazzo di Giustizia. I lavori iniziarono nel 1932  e si protrassero sino 1940, su un’area di trentamila metri quadrati nel centro del capoluogo lombardo, abbattendo la Chiesa di San Filippo Neri e il Convento delle Schiave di Maria.

La struttura presenta tre facciate austere, ritagliate da alti finestroni rettangolari e occupate da altrettanti ingressi affiancati da creazioni scultoree in marmo. Tra queste è singolare quella di Attilio Selva che rappresenta la Giustizia seduta su un parallelepipedo mentre regge scudo, lancia e tavole della legge in bronzo. La facciata principale, alta trentotto metri, mostra un’epigrafe giustinianea scolpita sul coronamento della costruzione, che elenca i principali precetti del diritto romano: “Iurisprudentia est divinarum atque humanarum / rerum notitia iusti atque iniusti scientia” (“La Giurisprudenza è la scienza degli affari divini e umani, dei fatti giusti e ingiusti”), “IUSTITIA / Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere / alterum non laedere, suum cuique tribuere” (“GIUSTIZIA / I precetti del diritto sono questi: vivere onestamente / non ledere l’Altro, attribuire a ciascuno il suo”) e “Sumus ad iustitiam nati neque opinione / sed natura constitutum est ius” (“Siamo chiamati alla giustizia fin da quando siamo nati e sulla natura si fonda il diritto, non sull’opinione”). Gli interni presentano un ampio spazio detto “deambulatorio” dal quale si accede alle diverse aule. Quattro piani in tutto, su ciascuno di essi compaiono biblioteche, aree ristoro ed altri servizi, nonché bassorilievi, come il trittico che raffigura la Giustizia Romana di Traiano, quella corporativa e quella biblica, incisi come momenti emblematici della storia cristiana. Queste opere furono realizzate da Romano Romanelli, Arturo Martini e Arturo Dazzi. Non mancano poi opere pittoriche: Carlo Carrà realizzò gli affreschi “Il giudizio universale” e “Giustiniano che amministra la giustizia”, nella seconda e terza aula della Sezione Civile; Mario Sironi realizzò il mosaico “Giustizia armata con la Legge”, nell’aula della Prima sezione della Corte d’Assise e d’Appello. In queste decorazioni rifulgono i miti della romanità e della cristianità, aquile, trionfi d’alabarde, allegorie della Verità e della Forza.

L’architettura del Ventennio coinvolse anche i complessi industriali. Da ricordare è la scomparsa Aviorimessa realizzata da Pier Luigi Nervi ad Orbetello, caratterizzata da un ingresso pesantemente classicheggiante ma anche da innovative coperture a struttura geodetica con elementi prefabbricati in cemento armato disposti a reticolo. Degni di nota furono i vari edifici e complessi realizzati da Luigi Figini e da Gino Pollini per la Olivetti di Ivrea. L’aspetto più contradditorio della politica architettonica del regime fu però quello urbanistico. I centri storici videro interi quartieri antichi sventrati per isolare i monumenti di fondamentale importanza e farli “giganteggiare nella necessaria solitudine”, senza cogliere che così si toglieva ad essi il tessuto connettivo che li coordinava ad ambienti sorti nel corso dei secoli. Il progetto di demolizione della Spina dei Borghi a Roma fu firmato da Piacentini e Attilio Spaccarelli. Fu approvato da Mussolini e Pio XI e il 29 ottobre del 1936, il giorno dopo l’anniversario della Marcia su Roma, il duce stesso, in piedi su un tetto del borgo, dette il primo colpo di piccone. Scomparve così la Spina nel giro di un anno, schiacciando i sapienti studi prospettici del Bernini per la Basilica di San Pietro, creando la scenografica Via della Conciliazione. Parimenti si spaccò in due una delle zone più archeologiche più importanti al mondo, aprendo la Via dell’Impero, oggi Via dei Fori Imperiali, per collegare significativamente Piazza Venezia al Colosseo.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Lucivero (a cura di), Marcello Piacentini; M. Colombo (a cura di), Razionalismo

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