La Calabria magnogreca

Il complesso processo all’origine della grande costellazione di colonie greche nell’Italia Meridionale trovò nella Calabria un approdo rigoglioso. L’agricoltura, lo sport, i commerci, la scultura e la filosofia fiorirono lasciando testimonianze ed echi che ancora oggi colpiscono.

  • I Bronzi di Riace

La loro unicità è dovuta anche al fatto che sono pochissime al mondo le statue greche, in bronzo, pervenute intatte fino ai giorni nostri e, fra tutte, queste sono le più belle. Sono il tesoro di Reggio Calabria, sono i Bronzi di Riace.

Le due figure, nude, bilanciate e ponderate come il famoso Dorìforo di Policlèto, stanti ambedue poggianti sulla gamba destra col braccio sinistro sollevato a sostenere forse uno scudo, riflettono la tendenza della statuaria greca a cogliere dell’uomo non l’apparenza transitoria, ma la perfezione ideale. Le linee accentuate dallo stacco cromatico del bronzo, poi, conferiscono una forte apparenza di verismo assieme alle labbra e i capezzoli sono di rame, i denti e le ciglia d’argento, gli occhi d’avorio e di paste vitree.

E’ probabile che la nave che le trasportava abbia fatto naufragio, ma fino a che non saranno compiuti ulteriori ritrovamenti è impossibile stabilirne la provenienza e l’epoca dell’affondamento. Cronologicamente sembrano appartenere all’ultimo arcaismo con i canoni estetici ben descritti da Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, XXXIV, 55-58): “[Policlèto] fece anche quella statua che gli antichi artefici chiamano ‘canone’ o regola, prendendo da essa le misure e le linee dell’arte, come da una data legge; a lui solo fra gli artisti si riconosce il merito di avere concretato e realizzato la sua teoria artistica in un’opera d’arte […]. Si pensa che egli abbia portato al massimo splendore la scienza delle proporzioni corporee ed abbia perfezionato la scultura in bronzo […]. E’ sua caratteristica che le statue poggino su di una gamba sola fin quasi all’ultimo esemplare. Sembra che Mirone sia stato il primo a moltiplicare – segmentandola e scomponendola – la verità, più vario di ritmi rispetto a Policlèto, e più scrupoloso in fatto di simmetria; però anch’egli, preoccupandosi eccessivamente del corpo, non curò la espressione dei sentimenti dell’animo, e lasciò capelli e pube stilizzati e schematici come si usava in epoca arcaica”.

Proprio a Policlèto o a Mirone sono state spesso attribuite le due statue, rinvenute nel 1972. Rispetto al Dorìforo di Policlèto esse mostrano una maggiore articolazione delle strutture anatomiche, un maggiore stacco delle masse muscolari e dei tendini, una maggior vivezza, una maggior vigoria che ha fatto pensare a Mirone come loro autore. Queste attribuzioni non sono mai state suffragate da studi opportuni ma l’analisi dell’alto valore artistico delle figure lascia i più attribuire i bronzi greci alla mano di un grande maestro dell’antichità.

Rinvenute a circa otto metri di profondità nel mare Ionio, presso la località Porto Forticchio di Riace Marina, presso Reggio Calabria, e restaurate a Firenze dove furono esposte per la prima volta nel 1981, le statue conservano anche un altro mistero: cosa rappresentano? Forse due guerrieri? Forse due atleti? Forse sono divinità? La più recente teoria vorrebbe i Bronzi di Riace raffigurazioni di Tideo e Anfiarao, ma risposte certe e condivise non ce ne sono. Dunque ignoti sono gli autori, i personaggi raffigurati, la collocazione che avevano nell’antichità e l’epoca precisa di realizzazione, eppure questi capolavori scultorei restano i più importanti e significativi dell’arte nella Magna Grecia.

 

  • Locri ed il Cavaliere di Marafioti

La storia dell’antica Locri ci rimanda all’insediamento ellenico di Locri Epizefiri risalente al VII secolo a.C.; probabilmente ultima delle colonie greche sorte in Calabria, Locri Epizefiri fu fondata, sul luogo indicato dall’oracolo di Delfi, dai locresi guidati da Evante ed Aiace Oileo.

I coloni si stabilirono inizialmente presso lo Zephyrion Acra, oggi Capo Bruzzano, e solo più tardi si insediarono pochi chilometri a nord della città storica conservando però l’appellativo di Epizephyrioi, che significa appunto “attorno a Zephyrio”.

Si vuole che questi coloni siano nati dall’unione delle donne di Locri coi loro schiavi mentre i legittimi mariti erano impegnati nelle guerre messeniche accanto agli Spartani. Appare cosa assai singolare perchè in tempi remoti si pensa che i Greci non possedessero schiavi, ma altro aspetto curioso nella comunità calabrese era il ruolo centrale che vi ricoprivano le donne, tanto importante da far pensare ad una organizzazione matriarcale. Le successioni patrimoniali, per esempio, erano esclusivamente in linea femminile e la stessa aristocrazia si faceva discendere dall’unione illegittima delle donne locresci con i propri schiavi. Quale comunità avrebbe potuto vantarsi d’un fatto del genere? Probabilmente il costume matriarcale venne direttamente dalla madrepatria oppure fu assorbito dai Siculi che popolavano da prima questo territorio.

Discendenti da un adulterio, dunque, ma anche eccellenti poeti, si pensi a Nosside, tra le più note poetese greche, ottimi legislatori, si ricordi di Zaleuco, che a Locri redasse le più antiche leggi scritte d’Europa. Proprio tale codice manteneva stabili i ruoli ed i patrimoni delle cento famiglie aristocratiche discendenti dall’unione con gli schiavi.

Gli scavi archeologici hanno fatto emergere i tratti di questa società così incentrata sulle donne, anche nella vita religiosa: da Locri provengono preziose pinakes dedicate a Persefone; un tempio ospitava queste tavolette di terracotta usate come ex-voto. Le cose però, dal punto di vista religioso, erano destinate a cambiare.

Nel corso di un secolo Locri Epizefiri, probabilmente per tenere lontana la minaccia della nemica Crotone, fondò le colonie di Medma, oggi Rosarno, e di Hipponion, oggi Vibo Valentia. Ma lo scontro con Crotone fu solo ritardato: nella Battaglia della Sagra, sconfissero, in alleanza con reggio, i Crotoniati in uno scontro che li vide prevalere in diecimila contro centotrentamila.

La leggenda vuole che, sotto l’occhio di Zeus che avrebbe sorvolato la battaglia nelle forme di un aquila, i Dioscuri, Castore e Polluce, suoi figli, sarebbero apparsi a cavallo prendendo parte alla battaglia tra le schiere dei locresi. Da questo momento in poi a Locri le più grandi celebrazioni religiose furono rivolte proprio ai Dioscuri.

Gli scavi archeologici hanno fatto emergere statue ed ambienti che ci parlano del culto che la città tributò a tali divinità. Non solo il Museo Nazionale di Reggio Calabria conserva due sculture dei Dioscuri che ornavano la sommità del frontone del tempio in loro onore a Marasà, ma in località Pirettina, nel comune di Portigliola, fu pure riportato alla luce un meraviglioso acroterio, pure raffigurante un Dioscuro: si tratta del cosiddetto “Cavaliere di Marafioti”.

L’opera raffigura un giovane cavaliere, in origine affiancato al suo compagno, che, in sella ad un destriero, è nudo. L’immagine è sorretta da una sfinge con le braccia levate, è in terracotta e fu scoperta nel 1910 dall’archeologo Paolo Orsi. Il gruppo statuario, collocato sul lato posteriore del tempio di Marafioti, ne dominava la sommità forse come acroterio centrale.
Fu ritrovato frammentato in 180 pezzi che l’abilità di Orsi e del restauratore Giuseppe Damico riuscì a riconporre tra il 1911 e il 1925, integrando le parti lacunose e rafforzando il manufatto con supporti interni. Sicuramente siamo in presenza di un unicum nella produzione artistica della Magna Grecia, sia per le notevoli dimensioni, sia per la presenza della sfinge alata, di grande impatto visivo.
Il recente restauro oltretutto ha permesso di riscoprire, anche con l’ausilio di aggiornate strumentazioni, dettagli affascinanti quali i segni di stesura a pennello del sottile scialbo originale o la policromia in nero, bianco, rosso che evidenziava meglio, nell’intento del ceroplasta, il muso equino o la criniera rifinita a stecca.

 

  • Le Tavole di Eraclea

L’agricoltura nella Lucania ellenica mostra le tracce della lenta trasformazione il territorio subì con la penetrazione romana.

Un quadro agricolo dell’area evidenzia una vivacità commerciale ed un evidente grado di fertilità dei campi che era sicuramente superiore a quello della Grecia. I fiumi, tanto l’Agri quanto il Sinni, avevano corsi regolai ed erano pure navigabili. Se il bosco si estendeva su tutta l’area montuosa attorno a Sibari, le aree coltivate si allargavano dagli altipiani tra l’Agri e il Cavone sino ai rialzi collinari di Montalbano ed ai pianori del Sinni.

Un’analisi del sistema agrario metapontino tra il VI ed il IV secolo a. C. ci permette di cogliere degli aspetti particolari. Distribuite dal Cavone al Bradano, più di quattrocento fattorie metapontine sono state localizzate dagli archeologhi. Sono costruite in mattoni crudi, alzati sopra uno zoccolo di pietrame irregolare e di ciottoli di circa mezzo metro. La copertura è in embrici. Stalle, granai, magazzini, cisterne e letamai si aprono su un cortile centrale. In alcuni casi si eressero torri, come nella fattoria del IV secolo in proprietà Casamassima al Campagnolo. Torchi e macine sono i principali attrezzi rinvenuti. Le colture erano quelle del mondo ellenico, il vino, l’olio, i cereali. Tutte le fattorie erano connesse in un sistema di suddivisione agraria con fossi di drenaggio allo scopo di caricare verso il mare l’acqua di sgrondo dei terreni e di regolarne il deflusso, raccogliendola lungo le falde di baulatura dei campi. Così si evitava l’impantanamento del terreno. Commerci ed esportazione erano gli sbocchi di tali produzioni però i conflitti dei secoli, da Alessandro il Molosso alla spedizione di Cleonimo, dalle guerre di Pirro alla Seconda Guerra Punica, portano ad un lento dissesto dell’area e alla sostanziale desertificazione dell’età repubblicana, quel saltus metapontinus di Varrone dove è sparita ogni traccia della vita di campagna. La regione diviene solo un luogo di transumanza delle greggi.

Il sistema agrario eracleese del III secolo a. C., studiato attraverso le Tavole di Eraclea, è assai diverso da quello di Metaponto. La terra del Santuario di Atena è prevalentemente coltivata a vite, nelle terre del Santuario di Dioniso, invece, più lontane da Eralcea, all’interno della valle dell’Agri, non vi predominano che la macchia e il bosco, terreni non utilizzabili per colture in base a precise disposizioni di contratto. Le caratteristiche di queste fattorie sono simili a quelle del Metaponto per quanto concerne gli edifici: si sono riscontrati pagliai e magazzini per l’ammasso. Nella Siritide però l’azienda agraria è esclusivamente di sussistenza e, se le fonti parlano di Eraclea come di un’area dove gli eserciti potevano con profitto approvvigionarsi, è perché ciò era a caro prezzo pagato dalle popolazioni che poi per anni si tiravano dietro le conseguenze di queste razzie.

Il limite di questa agricoltura fu rappresentato dalla limitatezza dei mercati che si riflette sull’immobilismo delle strutture tecnico-produttive. Alla conquista romana la produzione decade a semplice livello di sussistenza, come mostra il caso di Eraclea. Si assistette ad una lenta riduzione dell’incidenza del commercio con chiusura delle linee di traffico. L’economia prese a guardare all’allevamento ed alla pastorizia.

  • Milone: l’invincibile atleta di Crotone

La leggendaria storia di Milone, l’invincibile atleta crotonese, ci è raccontata da Pausania in “Viaggio in Grecia” (VI, 14, 5-9): “(La statua di) Milone, figlio di Diotimo, è opera di Damea, anche lui di Crotone. Milone conseguì sei vittorie nella lotta ad Olimpia, una delle quali negli agoni dei fanciulli, sei a Pito nelle gare per adulti ed una in quelle dei ragazzi. Si presentò, poi, per la settima volta, ad Olimpia per la lotta, ma non ebbe la possibilità di mettere a terra Timasiteo, suo concittadino, ancora giovane per età, il quale, per di più, non se la sentiva d’affrontarlo.
Tramandano anche che Milone trasportò personalmente la sua statua nell’Alti e sul suo conto citano inoltre le prove del melograno e del disco: egli teneva afferrato un melograno in modo tale che non lo mollava ad altri, per quanta forza esercitassero su di lui e, nello stesso tempo, riusciva a non guastarlo premendolo; si poneva, poi, su un disco unto d’olio e metteva in ridicolo gli sforzi di quanti gli si buttavano addosso cercando di spingerlo fuori dal disco. Ma forniva anche altre dimostrazioni di bravura, come le seguenti.
Si legava una corda attorno alla fronte, come se si cingesse di una benda o di una corona e, trattenendo dentro le labbra il respiro e gonfiando di sangue le vene della testa, spezzava la corda con la sola tensione delle vene. Si dice anche che lasciando cadere la parte del braccio destro che va dalla spalla al gomito proprio lungo il fianco, tendeva l’avambraccio a squadra e disponeva le dita così: il pollice rivolto in alto ed i rimanenti l’uno sull’altro in fila. Or dunque, il mignolo, che veniva a trovarsi al di sotto, nessuno riusciva a smuoverglielo dal suo posto, qualunque sforzo facesse.
Dicono che Milone morì ucciso dalle fiere. Un giorno, infatti, nel territorio di Crotone s’imbattè in un tronco d’albero messo a stagionare, nel quale erano stati conficcati dei cunei, per tenerlo aperto. Troppo sicuro della sua forza, inserì le mani nella fenditura del tronco; i cunei scivolarono giù e Milone, imprigionato nel tronco, diventò facile preda dei lupi. A quanto pare, nel territorio di Crotone vivono in grandissima quantità belve di questa specie.
Questa fu, dunque, la fine di Milone”.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia:

G. Forni, La produttività agraria della Magna Grecia desunta dalle Tavole di Eraclea di Lucania (IV sec. a.C.); J. Boardman, I Greci sui mari, Firenze 1986; V. M. Manfredi, I Greci d’Occidente, Milano 2010; (a cura di G. Pugliese Carratelli), Magna Grecia, Milano 1988; C. De Palma, La Magna Grecia. Storia e civiltà dell’Italia meridionale dalle origini alla conquista romana, Roma 1990; P. Larizza, La Magna Grecia, Reggio Calabria 1993

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