La lingua piemontese

Il piemontese non godette mai dello stesso prestigio europeo del provenzale, e non fu mai lingua “ufficiale”. Perchè, questo? Il motivo, essenzialmente, derivò da una disistima da parte degli stessi locutori i quali, pur usandolo nella poesia, nell’atto pratico di dovere, per esempio, scrivere una lettera, davano maggior credito sia al francese sia, in molta minor misura, all’italiano. Soltanto nel 1783 il piemontese ebbe una sua grammatica, una sua grafìa e un suo vocabolario.

Ma qualche anno prima, nel 1765, quando l’intellettuale ed erudito piemontese Dalmazzo Francesco Vasco volle manifestare a Jean-Jacques Rousseau tutto il suo apprezzamento entusiasta dopo averne letto gli scritti, così esordiva nell’incipit di una lettera: «Ne faites pas attention au style, car je suis né dans un pays qui n’a point de langue pour écrire, et un mauvais jargon pour parler…», ossia “perdonate il mio stile di scrittura, perché provengo da un Paese che non ha neppure una lingua propria per scrivere, mentre ha un una specie di sgraziato idioma per parlare”. Tuttavia nel giro di pochi anni, tutto cambiò: il piemontese venne nobilitato con il divenire, dopo la metà del XVIII secolo, la lingua della corte di Carlo Emanuele III.

Come lingua di corte, divenne uno status symbol: in Piemonte i ceti medio-alti ignoravano l’italiano, e si esprimevano di solito in piemontese e in francese, mentre nel resto dell’Italia i ceti medio-alti parlavano e scrivevano abitualmente in italiano e il dialetto era riservato al basso popolo. Ciò costituiva una marcata differenza rispetto al resto della Penisola, che invano il conte Gian Francesco Galeani Napione (uno degli intellettuali fautori dell’introduzione della lingua italiana nell’uso quotidiano) stigmatizzava nel suo “Dell’uso e dei pregi della lingua italiana”, illustrando invece i “Vantaggi che ne verrebbono dallo adoperarsi nelle nobili adunanze la lingua italiana colta in vece di dialetti”. Ma Napione restava inascoltato: infatti ancora qualche anno dopo, l’erudito francese Aubin-Louis Millin de Grandmaison, trovandosi ospite dell’Accademia delle Scienze durante il periodo napoleonico, rilevava nel suo “Voyage en Savoye, en Pièmont, à Nice et à Gênes” come la nobiltà di Torino usasse il piemontese con grande piacere: «Les nobles et les courtisans aiment beaucoup parler le piémontais, etj’ai entendu des hommes et des femmes, de la première classe et d’un esprit très cultivé, parler entre eux piémontais avec un grand plaisir».

Dunque non vi è nulla di strano se l’Alfieri, uomo appartenente a un lignaggio aristocratico, pur avendo rinnegato la lingua francese per farsi scrittore toscano, non rinnegò mai quella piemontese. Riflesso di ciò sono due suoi famosi sonetti, composti per divertissement proprio nell’anno in cui Maurizio Pipino pubblicava la grammatica ed il vocabolario piemontesi, con dedica a “Sua Altezza Reale Maria Adelaide Clotilde Saveria di Francia, Principessa del Piemonte”. Il primo sonetto è quello con il celeberrimo incipit: “Son dur, lo seu, son dur ma i parlo a gent…”, ossia il “Sonèt d’un Astesan an difesa dl stil ‘d soe tragedie”, che venne composto a Roma nell’aprile 1783. E’ il famoso sonetto nel quale l’Alfieri, irritato per il fatto che le sue tragedie davanti a un pubblico italiano non raccogliessero consensi, accusava gli Italiani di essere degli smidollati senza spina dorsale. Esso è doppiamente interessante, perchè leggendolo ci riporta in quella età dell’oro del melodramma barocco, quando il Metastasio era l’autore principe dei libretti d’Opera e i cantanti castrati erano i padroni indiscussi della scena musicale. E d’altronde, come far andare d’accordo i cupi e tormentati eroi dell’Alfieri, con le rime del Metastasio che idealizzavano dei ed eroi della mitologia classica onde farli impersonare dagli evirati cantori? Gli evirati, mostri del virtuosismo vocale in grado di interpretare tanto parti maschili quanto parti femminili, che venivano contesi da tutti i teatri ed erano oggetto di adorazione isterica degli estimatori? Comunque il sonetto provocò a qualcuno qualche mal di pancia e l’Alfieri, fingendo resipiscenza, ne pubblicò un secondo qualche mese dopo, sempre in piemontese. Pare di vederlo, l’Alfieri in pantofole, comporre questi sonetti, con accanto “il fidato Elia”. Ma esiste un altro luogo dove trovare l’anima piemontese dell’Alfieri.

Per meglio addentrarsi nell’italiano, l’Alfieri si avvaleva di una ponderosa edizione in sei volumi del Vocabolario degli Accademici della Crusca. Tuttavia, come tutti gli studenti, per tenere a mente quanto imparava, compilava anche una specie di quaderno nel quale annotava tutti i nuovi vocaboli, scrivendovi accanto il loro significato, a volte in francese, a volte in piemontese. Si tratta di quello che i posteri hanno poi denominato “Appunti di lingua”. E così, quando egli ascoltò la parola «Origliare», si affrettò a prendere nota per sè in francese che significava «Etre aux écoutes», così come l’espressione «Promettere mari e monti», significava «Promettre monts et merveilles». Alcune parole da lui annotate, ci rendono bene l’atmosfera del suo tempo. Per esempio, «Donneggiare».

Come vediamo spesso nelle scene di Goldoni, non tutta la servitù era remissiva come il suo servo Elia: molti servi (specie quando il padrone si assentava) tendevano a comportarsi da padroni. L’italiano esprimeva questa situazione con il verbo «Donneggiare», che significava “imitare il proprio “dominus” (o aspirare a divenir tale, come la “Serva padrona” di Pergolesi). E Alfieri annota scrupoloso: «”Donneggiare” = “Faire le maitre”». Se l’Alfieri usa il francese per tradurre le nuove parole italiane o le espressioni verbali (che lui chiama “Giri di lingua”), quando incontra oggetti di uso quotidiano a lui familiari ritrova la dimensione domestica, e usa il piemontese. E così troviamo l’appunto che ciò che i Fiorentini chiamano «Granata o- Scopa», non è altro che una «Ramassa». Conoscendo la sua debolezza verso il gentil sesso, non dubito che avrà annotato con molta soddisfazione la parola «Donneare» (che il Vocabolario della Crusca spiega con “Fare all’amor con le donne. Conversar con esse per spassarsi”) indicandola come «Faire la cour aux Dames». Ma donneando, se capita che l’occasione si presenti, che dovrà fare il gentiluomo? Ma senza dubbio «Baciucchiare». Ed Alfieri annota diligente questo nuovo verbo. Però al momento di tradurlo, invece del francese “Baisoter”, utilizza il piemontese e scrive «Basouté». Ma perché questo cambio di registro? Beh, mi viene il sospetto che proprio quella fosse la lingua da lui utilizzata nell’intimità dell’alcova.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Paolo Benevelli

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