Le battaglie di Merì e Milazzo

A metà luglio 1861, Garibaldi, padrone di Palermo e di metà Sicilia, ridiede vigore alle operazioni militari per prendere anche Messina. Il generale partì dalla capitale sulla nave City of Aberdeen per porsi a capo dell’esercito che doveva operare in quella zona, lasciando come prodittatore a Palermo il generale Sirtori, poi sostituito da Depretis. I fatti d’arme si sarebbero svolti a Meri ed a Milazzo.

Il 17, prima ancora che potesse sbarcare, infatti, i garibaldini affrontarono vittoriosamente a Merì un corpo borbonico uscito da Milazzo e poi passando ad occupare Coriolo. Il generale Medici fornì in merito importanti ragguagli al governatore di Cefalù con due telegrammi. Il primo recita: “Il nemico tentò di girare la mia estrema destra. Vi spinsi contro quattro compagnie. Combattimento vivissimo. Il nemico forte di due mila uomini con artiglieria e cavalleria fu respinto. Si ritirò in Milazzo. Perdita nostra sette morti e varii feriti . Quella del nemico assai più rilevante. Lasciò pure cavalli”. Dopo qualche ora seguì un secondo: “L’inimico rinnova l’attacco con maggiore energia e con maggiori forze. Combattono tre mila uomini in tutta la nostra destra contro cinquecento dei nostri. Il combattimento dura meglio di due ore con un fuoco nutrito, continuato, imponente. L’inimico ha bombe e cannoni. Con posizioni bene scelte resiste energicamente. Due cariche alla baionetta dei nostri decidono della giornata. L’inimico si ritira a Milazzo, ha sofferto gravi perdite di morti e feriti. Noi pochi morti, ma buona copia di feriti. Abbiamo fatto alcuni prigionieri. Lo spirito dei volontari è ammirabile” (Giuseppe Ricciardi, Vita di Giuseppe Garibaldi).

Adesso bisognava puntare su Milazzo. Garibaldi, studiando il terreno dal villaggio di Santa Lucia che dominava la pianura, capì subito che la città, ben stretta in una cinta muraria e difesa da una importante fortezza, sarebbe potuta divenire una vera spina nel fianco, così mandò dei rinforzi, ovvero milleseicento uomini guidati da Enrico Cosenz, appena giunti da Genova con la terza spedizione di volontari, ed altri mille altri milleduecento di Clemente Corte.

Il piano di battaglia prevedeva un potente assalto sulla propria sinistra, la simulazione di una ritirata convergendo sull’ala destra per poi muovere la destra all’offensiva ed entrare alla baionetta nella città, spingendo il nemico alla ritirata. Riferisce Augusto Vittorio Vecchi: “La mattina del 20 pose Migliavacca all’estrema dritta con un battaglione Lombardo, fior di gente, a tutela di lui Fabrizi per rintuzzare ajuti che dalla strada di Messina ai borbonici potessero giungere. A sinistra Simonetta e Malenchini con sei battaglioni e mezzo, Cosenz alla riscossa in seconda linea a sinistra, egli, il Dittatore, con le guide ed i carabinieri genovesi (un pugno d’uomini) al centro. Quattromila uomini contro i cinquemila di Bosco, ma questi tutti in azione, mentre i Siciliani scompartiti in due riserve (Fabrizi e Cosenz) ed in una divisione di battaglia non superante i 2500 uomini” (Augusto Vittorio Vecchi, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi).

Alle sei del mattino del 20 luglio 1861 il colonnello Beneventano del Bosco tentò una sortita, scagliandosi con cinquemila uomini usciti dalla fortezza sui reparti di Migliavacca ed il reggimento di toscani di Vincenzo Malenchini. Del tutto privi di artiglieria ed inferiori in numero, costoro non resistettero all’urto e dovettero ripiegare. Con Cosenz e Medici, Garibaldi si impegnò allora a controbattere alla mossa di Bosco, ma con gravi perdite. La battaglia fu aspra, gli uomini guidati da Eliodoro Speck, celebre tenore, sferrarono un attacco su un lungo fronte, mentre il forte, munito di buone artiglierie, tuonava. La brigata Dunn fu decimata dai cannoni, poi una carica di cavalleria borbonica provò a disperdere i garibaldini. Si vide allora Garibaldi andare all’attacco e conquistare il cannone, ma così finire investito dai cavalieri. Scrive Vecchi: “Il loro capitano a sciabola sguainata tira un fendente cui il Dittatore risponde con una parata e con un colpo al viso che coglie al collo il cavaliero; Missori, Statella, i venti uomini che son li presso giuocano di taglio e di punta e sconfig gono il manipolo che fugge scemato e scuorato”.

Un grande ostacolo era costituito dalla stretta duna sabbiosa che univa la fortezza alla terraferma e fu Garibaldi a superarlo. Salì a bordo della Tukory, nave borbonica passata ai garibaldini, e iniziò a cannoneggiare sia la fortezza che i reparti borbonici che stavano combattendo. Tornato sulla riva, passò al comando dell’ala destra guidandola all’assalto, seguito dal Medici. Gli scontri si spostarono nella città, i borbonici cedevano progressivamente, palmo a palmo, il terreno, ma solo alle otto di sera Bosco abbandonò i quartieri e si ritirò nel forte. Si era visto chiudere in trappola e non aveva potuto fare altrimenti.

Il numero dei morti e dei feriti fu di circa milleduecento nell’esercito di Garibaldi e di quasi tremila in quello di Bosco. Tra i feriti garibaldini c’erano anche il maggiore Clemente Corte ed il generale Enrico Cosenz. I condotti d’acqua che approvvigionavano il castello furono tagliati e Bosco, il giorno 25, si arrese in seguito a delle trattative, consegnando la fortezza, quarantaquattro cannoni, mezza batteria di campagna, quarantacinque cavalli, ottantaquattro muli e molte munizioni.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: Giuseppe Ricciardi, Vita di Giuseppe Garibaldi; Luciano Binciardi, Garibaldi; Augusto Vittorio Vecchi, La vita e le gesta di Giuseppe Garibaldi

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