Dopo il Volturno, le miopi scelte del comando napoletano

Anche se la Storia non si fa con i se, desta sempre impressione la miopia delle decisioni prese dal comando dell’esercito napoletano dopo il Volturno, inspiegabile almeno dal punto di vista della situazione sul campo.

Il 1° ottobre l’offensiva dell’esercito napoletano, secondo tre diverse direttrici, fronte di Capua, Caserta Vecchia, Maddaloni, è fallita di fronte alla tenace difesa garibaldina, i garibaldini, tirato un sospiro di sollievo, hanno ripreso a rafforzare le loro posizioni.

Falliti i tentativi di Mazzini e di Cattaneo volti a ritardare il voto ed a favorire l’elezione di un’assemblea costituente, che meglio avrebbe potuto tutelare gli interessi e le specificità del Mezzogiorno, la data del plebiscito fu fissata per il 21 ottobre.

Il 14 ottobre, Francesco II convocò Ritucci chiedendogli una nuova offensiva allo scopo di impedire il plebiscito. Ma il maresciallo sollevò varie obbiezioni, concludendo “Questa piccola giunta è di avviso che ad onta dell’avanzata stagione, a confronto dello estremo rovescio, sarebbe preferibile di cercare di provvedere nel miglior modo ai bisogni dei soldato e di tenersi nelle attuali posizioni, controbattendo tutte le operazioni od i tentativi del nemico, come si sta facendo, cercando di rialzare a gradi la disciplina delle truppe per guadagnar tempo ed attendere da questo il ritorno della fortuna nella politica di Europa, appoggiando costantemente l’impulso delle popolazioni al ritorno dell’ordine».”

Ritucci quindi, anche se si illude sulla possibilità di un intervento estero, è almeno consapevole della necessità di “appoggia(re) costantemente l’impulso delle popolazioni al ritorno dell’ordine” per riguadagnare tempo e terreno perduto. Approfittando perciò della riorganizzazione dell’esercito che rende disponibili i battaglioni della Guardia Reale, ne spedisce uno nel Molise, mentre la brigata di volontari agli ordini del barone Klitsche de La Grange si muove nell’alta Terra di Lavoro. Nell’intento di togliere così a Vittorio Emanuele II ogni pretesto d’intervento o comunque sbarrandogli il passo da forti posizioni nelle gole appenniniche. Klitsche prende Avezzano ed arriva minacciare L’Aquila, il maggior Sardi riconquista Isernia, insorta il 30 settembre e poi ripresa e tenuta per ventiquattro ore dai liberali molisani al comando dell’Intendente del Molise nominato da Garibaldi, Nicola De Luca.

Successi che insieme al fallimento del tentativo di Turr di portare la guerra sulla riva destra del Volturno, “La popolazione al di là del fiume è quasi tutta nemica e io non poteva fare altro” gli scrive lo Csudafy, dimostrano il buon esito della pur tardiva mobilitazione delle forze che si opponevano alla rivoluzione. Alle rioccupazioni borboniche di Piedimonte, Venafro, Avezzano, saggiamente non sono poi seguite stragi e vendette e gli stessi liberali, sentendosi persi, implorano la protezione dei regi, inviando messaggi e delegazioni a Gaeta. Il 12 ottobre il Sotto Intendente di Avezzano Vincenzo Cardone invita Klitsche, ancora a Sora, a ripristinare l’ordine dopo la fuga dei garibaldini. Il barone commenta in una lettera al re dicendo che “il vorace lupo si è fatto agnello”.

Ma quale era, di fatto, la situazione sul fronte del Volturno?

Tra i garibaldini le perdite subite in battaglia erano state pesanti, circa 2000 uomini, di cui 1380 “smarriti”, come li chiama il garibaldino (e tedesco) Rustow, il che testimonia che il morale non era poi così alto come ricordato nelle memorie pubblicate successivamente. Confermando quanto riportato a Gaeta dai diplomatici stranieri rimasti a Napoli e quanto aveva scritto Villamarina a Cavour con lettera del 3 ottobre “On est venu implorer le secours de nos troupes pour couvrir la ville” e dispaccio telegrafico del 5 “La bataille politique a été gagné le soir que j’ai consenti à envoyer les Bersaglieri à son secours. Le moment a été bien choisi car Garibaldi se trouvait gravement compromis avec ses troupes qui commençavent à se débander.”.

Infatti il generale non riceveva più rinforzi dalla Sicilia, e non poteva contare sulle migliaia di guardie nazionali e garibaldini impegnati a mantenere l’ordine nelle province conquistate. Dove si viveva nel terrore di una possibile rivolta contadina di massa, ingigantita dalle notizie dei fatti accaduti a Ariano Irpino e a Isernia. Come riportato da Franco Molfese, che scrive “I contadini si andavano sollevando contro la rivoluzione un po’ dappertutto…Tutti vedevano che senza l’afflusso di nuove forze la dittatura garibaldina ben difficilmente avrebbe potuto battere l’esercito borbonico, domare i contadini e intraprendere la marcia su Roma”.

Un esercito che conta nominalmente su di una ventina di battaglioni di fanteria, 17 di cacciatori, 24 squadroni di cavalleria e 8 batterie da campagna. A forza ridotta, ma ancora con 867 ufficiali, 35.770 graduati e uomini di truppa, 3.791 animali e 61 pezzi d’artiglieria, alloggiati nei quartieri d’inverno di fortezze situate in regioni saldamente in mano realiste. Anche non considerando i battaglioni cacciatori in ricostituzione e i battaglioni della Guardia che avevano dato cattiva prova, la forza reale non era certo inferiore a quella già impiegata al Volturno.

Quanto al fattore morale, la mancata vittoria del 1 ottobre aveva depresso il morale della truppa, tra la quale si era diffuso da tempo anche lo scontento per il comportamento degli ufficiali. Nel corso della battaglia, però, insieme all’insufficienza di generali come Afan de Rivera e Ruiz, si erano evidenziate le qualità di maggiori e colonnelli precedentemente penalizzati dalla pratica napoletana delle promozioni “per anzianità”. Alcuni di questi vengono promossi e all’indisciplina si pone rimedio anche con misure estremi, viene fucilato a Capua un sergente che incitava la truppa a non fidarsi degli ufficiali, a suo dire tutti traditori. Scriveva il 18 ottobre la poetessa Giannina Milli all’amica Clara Maffei: «illusi, fanatici, vandali, e tutto quel che volete, non è men vero che i borbonici si lasciano ammazzare e menan strage dei nostri».

Quanto a materiali ed equipaggiamenti l’esercito poteva ancora contare sulle grandi armerie delle fortezze di Capua e Gaeta. Solo Capua disponeva di 21.000 moschetti, 11.000 sciabole, 1000 pistole e Gaeta resisté poi ad un assedio di quasi quattro mesi, provvedendo ad una guarnigione di oltre 11.000 uomini. Non si poneva quindi il problema di superare l’inverno, come proponeva di fare Ritucci. Il quale, però, dava ad intendere di ignorare che Vittorio Emanuele II era entrato nel Regno il 12 ottobre. Preso tra due fuochi, due eserciti ciascuno dei quali in grado di affrontarlo, ci sarebbe voluto un Napoleone, e Ritucci non lo era.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Giovanni Pede, autore del volume “Dal Volturno al Macerone, nascita di un Regno”, è appassionato di storia militare italiana

Bibliografia: W.Rustow, “La guerra d’Italia del 1860”, 1862; Giovanni Delli Franci, “Cronica della campagna d’autunno del 1860”, 1877; Franco Molfese, “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, 1964; Ruggero Moscati, “I Borboni di Napoli”, 1973; Alberico Lo Faso di Serradifalco, “Nelle Due Sicilie dal maggio 1859 al marzo 1861”, documenti dell’Archivio di Stato di Torino, http://www.storiamediterranea.it/public/md1_dir/b1590.pdf

 

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