Garibaldi ferito in Aspromonte

Da Marsala il 19 giugno 1862, in un discorso tenuto per commemorare lo sbarco dei Mille, Garibaldi palesò l’idea di una spedizione su Roma per liberarla dal potere temporale pontificio e unirla al Paese. Lanciò il grido “Roma o morte!” che, dalle voci dei pescatori, fu ripetuto in tutta l’isola, da città in città, superando lo stretto di Messina. Il 15 luglio successivo, a Palermo, Garibaldi rinnovò l’incitazione ad arruolarsi nella nuova impresa: “Popolo del vespro, popolo del 1860 bisogna che Napoleone sgomberi Roma. Se necessario, si faccia un altro vespro!”. Trascinato dal desiderio di realizzare il più grande sogno della sua vita, radunò nel bosco della Ficuzza, nelle vicinanze della città, migliaia di animosi volontari, accorsi da ogni parte d’Italia “col sorriso sulle labbra, colla gioia sulla fronte, al banchetto delle battaglie” ed il 1° agosto partì dalla Ficuzza con una legione, che volle denominare Legione Romana, formata di oltre 3500 uomini, 4 battaglioni di bersaglieri, comandati dal figlio Menotti, da Corrao, Guerzoni e Pellizzari e 3 reggimenti di fanteria, agli ordini di Bentivegna, Trasselli e Bedeschini, e con le guide, condotte da Missori.

I volontari passarono per Corleone, Casteltermini, Santa Caterina, Castrogiovanni, Leonforte, accolti ovunque dal più vivo entusiasmo della gente. Per diciotto giorni, i garibaldini riuscirono ad eludere la vigilanza delle truppe regolari che, in gran numero, erano state dislocate sul territorio per contrastare loro il passo. A tale scopo, il governo aveva richiamato il prefetto di Palermo, il marchese Pallavicino Trivulzio, sostituendolo col generale Cugia, al quale aveva accordato pieni poteri, in più era stato proclamato nell’isola lo stato d’assedio, con la mobilitazione di tutte le forze militari, ascendenti a 60 battaglioni di fanteria, 3 reggimenti di cavalleria ed 11 batterie da campo, senza contare il blocco marittimo della squadra dell’ammiraglio Albini.

Nonostante tali imponenti misure, Garibaldi riuscì ad eludere i reparti appostati fra Adernò e Paternò e ad entrare la notte del 18 agosto a Catania, accompagnato da una folla delirante. Dopo alcuni giorni di febbrili preparativi, il 24 seguente, su due piroscafi mercantili, il Generale Abbatucci, della compagnia francese Valery, e il Dispaccio, della società Florio, che erano entrati la giornata stessa in porto ed erano stati prontamente requisiti, senza alcuna difficoltà, si iniziò l’imbarco della legione. Verso la mezzanotte, Garibaldi diede l’ordine della partenza ed il convoglio salpò salutato dalle ovazioni della cittadinanza.

L’Aspromonte però avrebbe spento tanta euforia e reso protagonisti non gli uomini d’arme ma quelli di medicina. Medico capo della legione era il dottor Pietro Ripari, già chirurgo maggiore nella difesa di Roma nel 1849. Suoi collaboratori erano il dottor Giuseppe Basile, primo chirurgo dell’ambulanza generale, ed il dottor Enrico Albanese.

Approdato a Pietrafalcone, presso Capo Spartivento, Garibaldi si accampò a Lazzaro. Con marce forzate, compiute sotto un sole ardente per difficili sentieri, patendo fame e sete, raggiunse le montagne di Aspromonte. Frattanto l’esercito italiano, con 5 battaglioni di fanteria e 2 compagnie di bersaglieri al comando del colonnello Pallavicino, avanzò rapidamente inseguendo i volontari.

L’eroe dei due mondi, inviato un drappello ad esplorare i movimenti avversari, ripartì la legione in due colonne per farle marciare per vie diverse su Bagnara e Monteleone con l’obbiettivo di evitare scontri. Verso le quattro del pomeriggio, però, le prime linee dei reparti regolari, coi bersaglieri in testa, a passo di carica, individuati i garibaldini, tentarono una manovra di accerchiamento. Allora Garibaldi fermò i suoi uomini sul ciglio di una foresta di pini e si pose al centro ordinando di non far fuoco. Invece esplosero colpi dalle due compagnie di bersaglieri cui rispose l’ala destra dei garibaldini. Garibaldi fece suonare il cessate il fuoco, ma nell’istante fu ferito da una pallottola di carabina al piede destro e si accasciò.

Parve che il proiettile, forato il calzone, lo stivale e la calza di lana, si fosse incuneato nel malleolo interno, poco distante dal tendine d’Achille. Una seconda pallottola gli strisciò sulla coscia sinistra lacerandogli il tessuto sottocutaneo. Alcuni ufficiali corsero a fornirgli aiuto. Lo sollevarono a braccia e lo trasportarono sotto un pino. Proprio Albanese fu il primo a prestare il soccorso medico. “Se credete necessaria l’amputazione della gamba, amputate!”, disse Garibaldi ma il chirurgo non lo ritenne opportuno, si limitò a detergere e lavare le ferite con acqua sorgiva, poi, avendo notato la comparsa di un gonfiore al malleolo interno, vi praticò un’incisione longitudinale della pelle di circa tre centimetri, nell’intento di estrarre il proiettile. La ferita fu poi ricucita quando, sopraggiunti Ripari e Basile, si capì che la pallottola era uscita.

Intanto un luogotenente di Stato Maggiore si presentava a Garibaldi per invitarlo alla resa. Il Pallavicino gli accordò la possibilità di raggiungere Scilla per imbarcarsi per la Liguria. Così l’eroe dei due mondi fu trasportato su una barella in una marcia per sentieri aspri ed accidentati. Poche soste nelle case di umili pastori calabresi ed il giorno dopo giunse a Scilla dove si imbarcò sulla regia nave Duca di Genova. Il 1° settembre la nave entrò nel porto di La Spezia ed ormeggiò al forte Santa Maria.

La notizia della ferita di Garibaldi destò grandi paure e vivo rammarico in tutta l’Italia. Accorsero al suo capezzale il figlio Ricciotti, i generali Bixio e Turr, Adelaide Cairoli, Jessie White Mario ed una schiera di dottori. Si capì che in realtà il proiettile non era affatto uscito dal corpo. Il gonfiore del malleolo interno si estese alla gamba, accompagnato da dolore e febbre alta. Fu però da tutti convenuto di non rimuovere il corpo estraneo e di limitarsi alla semplice cura con emollienti per eliminare schegge ossee e frammenti di stoffa e cuoio. L’acutizzarsi dei dolori spinsero i medici a trasferire Garibaldi a La Spezia, all’albergo Milano, poi via mare a Pisa, dove prese alloggio all’albergo Tre Donzelle. Solo il 23 del mese di novembre ci si decise finalmente ad operare per rimuovere il proiettile e frenare le reazioni del piombo.

Jessie White Mario scrisse: “Garibaldi soltanto potrebbe narrare la tortura delle ferite e dei suoi dolori artritici. Fu martire anche della propria celebrità, perché i più famosi chirurghi vollero visitarlo e curarlo a modo proprio: chirurghi e medici italiani, francesi, inglesi, belgi e russi. Il pietoso ufficio di estrarre il proiettile toccò in sorte a quel valente e fior di patriota che fu lo Zanetti di Firenze, in uno ai medici curanti Ripari, Basile ed Albanese, che non abbandonarono mai un solo momento il loro caro paziente. Zanetti, sempre persuaso che la palla fosse rimasta nella ferita, insinuò nella piaga, per due notti consecutive, frammenti di spugna, induriti nella gomma; poi, all’ora della medicazione, allargato il tramite, vi pose dentro le sue pinzette. Ai piedi del letto stavano i tre medici e un belga. Garibaldi teneva fra i denti un fazzoletto e mi stringeva la mano. Nel momento in cui Zanetti afferrò la palla, il paziente disse: Per Dio, c’è! Passò appena un istante e la pallottola comparve fra le pinze del chirurgo. L’Eroe, durante il rapido e felice intervento, non avvertì alcun dolore e dichiarò di avere maggiormente sofferto nelle precedenti esplorazioni e medicazioni”.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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