Il genocidio dei Rom nel ricordo di Otto Rosenberg
Otto Rosenberg, un rom tedesco sopravvissuto alla persecuzione nazista, ha scritto delle toccanti pagine nella sua biografia, “La lente focale”. Queste memorie sono un racconto inquietante della vita dell’autore nella Germania degli anni Trenta sino all’abominio dei campi di concentramento, una continua narrazione di privazioni, razzismo, insulti, abusi e crudeltà.
Otto Rosenberg crebbe a Berlino, dove frequentò le elementari. La sua vita fu stravolta delle Olimpiadi del 1936, quando lui e gli altri sinti e rom della città furono trasferiti al campo di Berlino-Marzahn, lo Zigeunerrastplatz Marzahn genannt, costruito senza alcun fondamento giuridico, col solo assenso del partito nazionalsocialista, del prefetto di polizia di Berlino e dell’amministrazione comunale.
Non gli fu più permesso di frequentare la scuola, la sua infanzia finì in un mondo di stenti e miseria, segnata dalle condizioni igieniche disumane del campo. A Marzahn, Otto fu analizzato da Robert Ritter ed Eva Justin del Centro di igiene razziale e di ricerche politico-demografiche per i loro studi di eugenetica; fu pure assegnato ai lavori forzati in una fabbrica di proiettili per sottomarini a Berlino. Anche qui si affacciarono i pregiudizi e le leggi razziste e Otto d’un tratto non poté più pranzare con gli altri lavoratori durante la pausa: doveva mangiare da solo, fuori, su una catasta di legna nel cortile. Conobbe la prigione, accusato di ribellione al lavoro e furto di attrezzature militari per il semplice fatto d’esser stato trovato con una lente d’ingrandimento, e, dopo quattro mesi di isolamento in una cella, senza processo, finalmente fu giudicato e trovato colpevole ma fu rilasciato dopo aver scontato altri quattro mesi in cella.
Il suo destino era però segnato. Era un rom, uno zingaro e non poteva però essere un uomo libero per i nazisti. Dal 16 dicembre del 1942 Himmler aveva ordinato la deportazione di tutti gli “zingari bastardi” e a Marzahn restarono solo due sinti definiti “puri” da Ritter, trasferiti poi in una riserva presso il lago di Neusiedler. Così, appena varcati i cancelli della prigione, Otto fu nuovamente arrestato e messo su un treno diretto al campo di concentramento di Auschwitz. Era il 14 aprile del 1943.
Non ancora sedicenne, fu spogliato di tutti i suoi effetti personali e registrato col numero Z 6084, tatuato sull’avambraccio. Pochi giorni dopo fu trasferito al campo per famiglie zingare, dove erano detenuti molti dei suoi parenti, e fu destinato a vari impieghi. La vita quotidiana nel campo era fatta di percosse, torture, punizioni, fame, lavoro, malattia e morte. In un passo del suo testo riferisce: “Non so se oggi riuscirei ancora a passare davanti a una montagna di cadaveri senza batter ciglio, fatto sta che allora, a Birkenau, mi ci ero abituato. I cadaveri ormai appartenevano alla nostra quotidianità. Stavano buttati là, e noi non potevamo non vederli. E la cosa assurda è che ormai non mi veniva neanche più da dire ‘Povera gente!’. Tutti quei corpi buttati lì, donne, uomini, bambini. Mi ricordo di un prigioniero, un rom cecoslovacco, che insieme a un altro prendeva i cadaveri per le gambe o per le braccia e li buttava sul camion come se fossero stati dei pezzi di legno. I bambini li prendevano solo per un braccio o per una gamba e li tiravano in aria così come si lancerebbe un qualsiasi altro oggetto. E i corpi volteggiavano in aria e ricadevano poi sul camion. La montagna di cadaveri stava proprio vicino alla sauna, dietro l’infermeria. Era lì che li portavano, uno dopo l’altro, uno sull’altro, accatastati, buttati. Ancora uno e poi ancora un altro. Nudi. Ogni sera una montagna di cadaveri alta più di due metri. E ogni sera arrivava un camion con rimorchio che li caricava e li portava al crematorio…”.
La vivacità di Otto l’aiutò non poco a superare tanti disagi, cosa che invece non riuscirono a fare gli altri suoi familiari. Ad Auschwitz, infatti, morirono suo padre, la nonna Charlotte e tutti e dieci i fratelli…
Al campo Otto incontrò anche Josef Mengele, cui pulì gli stivali: “Quando si spargeva la voce che stava arrivando il dottor Mengele, i bambini gli correvano incontro, e lui li prendeva per mano e andava con loro sul retro, nella sauna, l’infermeria si trovava infatti proprio davanti alla sauna. Il suo autista, perchè pur guidando qualche volta aveva, comunque un autista personale, arrivava con un fuoristrada decappottabile. E dietro, sul portapacchi, c’era sparso ogni genere di barattoli, grandi, piccoli, più o meno profondi, e si vedeva che erano riempiti con cose diverse. Non so però con che cosa. Prima di entrare in infermeria il dottor Mengele indossava sempre il suo camice bianco. Anch’io, una volta, ci sono andato là dentro. Mi ricordo che c’erano delle persone a cui avevano inciso la parte superiore o inferiore del ginocchio, un pezzettino di carne qua, uno là, e poi zac, con una lunga forbice avevano tagliato un pezzo di garza. A che scopo non lo so. E a quei poveracci che stavano lì gli si gonfiava sempre la faccia o i piedi. Chi entrava in infermeria non ne usciva più. Questo lo so per certo. Mio zio ci è entrato, e anche sua moglie, e tutti e due non ne sono più usciti. Anche un altro mio zio non è tornato. Sono stati fatti fuori tutti”.
Otto Rosenberg fu tra quei coraggiosi che si unirono nel campo per famiglie degli zingari il 16 maggio 1944 e, opponendosi, riuscirono a fermare il previsto scioglimento del campo: “Quando i Blockalteste vennero a sapere che le SS avevano intenzione di far fuori tutti i rom e i sinti… allora ci dissero: ‘Ascoltate bene. Il capo del lager vuole farvi furoi’. Io e mio cugino Oskar, quello con cui ero andato a scuola, avremmo dovuto appostarci sui lati della strada, io da una parte, più o meno all’altezza della sauna, e lui dall’altra. Poi ci dissero quello che avremmo dovuto fare: ‘Allora, appena vi facciamo segno con la torcia corrte più veloci che potete e bussate alla porta di ogni baracca. La gente sa quello che deve fare’. Se le SS ci avessero visto avrebbero sparato, per fortuna però non ci videro. Non appena scorgemmo il segnale cominciammo a correre e a bussare a tutte le porte. I Blockalteste capirono che le SS stavano arrivando. Poi rientrammo in fretta nelle nostre baracche e dopo un po’ sentimmo il capo del lager Schwarzhuber che avanzava in marcia con tanti uomini, cani e mitragliatrici. Passò in rassegna alcune baracche… Venne anche da noi con la scusa di voler controllare lo schedario, ma noi sapevamo quello che cercavano, e per questo ci eravamo armati con pale, vanghe, martelli, picconi, zappe, forche… Non avevamo nulla da perdere, e se era la nostra vita che volevano, allora avrebbero dovuta pagarla cara, noi non avevamo nessuna intenzione di arrenderci… Schwarzhuber notò che in tutte le baracche c’era la luce accesa, anche dall’altra parte del filo spinato, nel lager dei polacchi e in quello degli ebri. Insomma tutta Birkenau era illuminata. Il che significava che stavano tutti all’erta…. Così, dopo aver controllato un paio di baracche, Schwarzhuber alzò i tacchi e se ne andò così come era venuto”.
Tutto fu però solo rimandato, la liquidazione del campo avvenne qualche mese dopo. Il 2 agosto 1944 Otto e altri 1.407 rom e sinti furono caricati su un treno che partì per il campo di concentramento di Buchenwald intorno alle 19:00. Quella stessa sera le guardie delle SS circondarono tutti coloro che erano rimasti al campo per famiglie zingare, li caricarono su camion e li portarono alle camere a gas dove furono assassinati.
Otto a Buchenwald restò tre giorni. Fu allora portato al campo di concentramento di Dora-Mittelbau per svolgere i lavori forzati nei tunnel sotterranei, poi finì nel campo di Bergen-Belsen.
Nell’aprile 1945 fu liberato dall’esercito britannico insieme ad altri 60.000 prigionieri.
Morì nel 2001 ed è sepolto a Berlino.
Autore articolo: Angelo D’Ambra
Bibliografia: O. Rosenberg, La lente focale