La cavalcata del Papa

I papi del del Medioevo e poi del Rinascimento, a distanza di qualche settimana dall’incoronazione in San Pietro, andavano al Laterano a prendere possesso della loro Cattedrale. Quando, nel IX secolo, Niccolò I (858-867) introdusse la famosa “cavalcata” mai avrebbe immaginato che, nei secoli successivi, il percorso sarebbe diventato importante almeno quanto la meta. Non si trattava infatti di una semplice una passeggiata. Intanto perché, anche nella Roma del Cinquecento, era un viaggio vero e proprio, una vera sfacchinata attraverso strade strette, sporche e tortuose e spesso viuzze di campagna che, nella brutta stagione, si trasformavano in pantani dilatando a dismisura le distanze. In secondo luogo non si svolgeva affatto alla chetichella, non riguardava solo il papa e i suoi più stretti collaboratori. Già dopo pochi anni, infatti, era diventato un lungo corteo di centinaia di persone, una cerimonia, un avvenimento che riguardava l’intera città, che coinvolgeva tutti i romani, di qualunque condizione, a volte come protagonisti di solito come spettatori. Questo perché mostrava loro il volto e il carattere del loro nuovo padrone. Per impressionare il popolo assiepato lungo il percorso, a Roma c’erano dei precedenti inarrivabili: i trionfi degli antichi imperatori romani. Essi fecero da modello, insegnarono ai cerimonieri papali che il rispetto, il consenso e le acclamazioni della folla si ottenevano intanto ostentando il lusso e poi palesando sia il volto buono che quello severo del potere. Cosa che ottenevano dando ordini ora di lanciare monete ora di rifilare qualche bastonata, alternando insomma il bastone alla carota.

 

Il fatto che i papi attraversassero la città non su un cocchio trainato da cavalli, e nemmeno su un palafreno bianco, ma in groppa a una mula bianca, sarebbe stata una cosa ridicola se la povera bestia, a sua insaputa, non fosse stata polisemica, cioè carica di più significati. Essa era un omaggio del Re di Sicilia, richiamava la Donazione di Costantino, rievocava l’ingresso di Cristo a Gerusalemme in sella a un asino la Domenica delle Palme, ed era pure il simbolo pacifico del re messianico descritto da Zaccaria nella Bibbia.

E questo per stare solo alla cavalcatura.

Venivano poi tutti gli altri significati perché la cavalcata serviva a mostrare ai sudditi oltre al padrone, anche la sua squadra; a comunicare gli eventuali cambiamenti da lui apportati nell’organigramma aziendale, le promozioni e le retrocessioni e via di seguito. Ecco perché nel corteo, tutto maschile, niente era a caso, tutto aveva un significato. Vestiti, cappelli e mostrine così come il numero delle piume. Per non parlare dei colori. Tra un rosso scarlatto, un vermiglione e un cinabro, per esempio, c’era un baratro quasi quanto andare a piedi, a cavallo o in portantina. Per guadagnare una posizione, ossia per ridurre di qualche metro la distanza dal pontefice, a volte non bastava una vita. Se una manica a sbuffo significava spesso diversi scatti di carriera, per essere accompagnati da un servitore occorrevano dieci anni in più d’inappuntabile servizio da camera. Insomma ogni posizione era disposta nel corteo secondo determinate regole e una precisa gerarchia. Ne derivava un ordine difficile da cambiare perché quasi impossibile da spiegare; che rifletteva le diverse dimensioni del papa. Egli era successore di Pietro e secondo alcuni anche Paolo, vicario di Cristo, sovrano di un regno ed erede degli imperatori romani. Ma era anche discendente dei re e dei sacerdoti dell’Antico Testamento, nonché legislatore, giudice e pastore. Aveva però anche un corpo con le sue fragilità, impulsi e bisogni, una famiglia, nipoti e a volte figli e amanti a carico. Era perciò difficile stabilire nel corteo l’origine e la natura di una posizione. Se fosse fondata su un diritto o su una concessione, su una prepotenza o su una simpatia. Le novità poi raramente cancellavano l’ordine preesistente, di solito dovevano trovarvi posto a forza di spinte e gomitate. Ne derivava un protocollo talmente astruso e complicato che anche i cerimonieri papali rinunciavano a spiegarlo. Si limitavano ad applicarlo e a perpetuarlo.

Aprivano il corteo cavalleggeri, valigieri e mazzieri, gentiluomini romani e forestieri, feudatari e ministri. Seguivano il sarto e il barbiere, tamburini, trombettieri e scudieri. I camerieri d’onore venivano dopo, e quindi sopravanzano in dignità, i commentari, gli avvocati del concistoro e i cappellani. I chierici da camera, i cancellieri e gli auditori prevalevano, altrettanto a sorpresa, sui baroni e sui principi romani, ma anche sugli ufficiali del popolo, sui maestri giustizieri e sugli abbreviatori. I quattordici caporioni di Roma precedevano i presbiteri, i vescovi, i cardinali, l’archiatra cioè il primo medico, l’ambasciatore di Francia e il papa.

Il lungo corteo partiva dal Vaticano, con studiata lentezza attraversava il Borgo, superava Castel Sant’Angelo, costeggiava Piazza Navona e poi, attraverso strade strette e tortuose oggi non più esistenti, si dirigeva verso il Campidoglio. Qui sostava per riprendere fiato e perché il papa potesse ricevere gli omaggi dei magistrati del Comune. Quindi riprendeva il percorso, scendeva adagio nel Foro Romano e, senza fretta, percorreva la via sacra passando sotto gli antichi archi di trionfo. Siccome i tre di Settimino Severo, di Tito e di Costantino sembravano pochi, se ne costruivano degli effimeri in legno, stucco e cartapesta, spesso a spese degli ebrei per punirli di non aver riconosciuto il Messia. Costeggiato il Colosseo, il corteo imboccava con pigrizia lo stradone di San Giovanni, passava sotto quella che appariva più una fortezza che una basilica, cioè i Quattro santi Coronati, e finalmente giungeva al Laterano. Il percorso subiva modifiche quando il papa ordinava di passare davanti al palazzo di una potente famiglia cui intendeva rendere omaggio.

Come già detto, a quei tempi i gesti e le azioni dei papi non potevano ridursi a quello che erano, ma dovevano avere anche un recondito significato simbolico. Incaricati di appurarlo erano i teologi che se le inventavano tutte pur di compiacere il papa. Sulla cavalcata alcuni sostenevano che fosse un ritorno alle origini, un pellegrinaggio da ovest verso est, dalla Gerusalemme Occidentale rappresentata dal Vaticano a quella Orientale, rappresentata dal Laterano. Altri, più poeticamente, ci vedevano piuttosto uno sposo, ossia il papa, che convolava a nozze con la sua sposa, ossia con la Basilica Lateranense. Che, vista l’età, si trattasse di una coppia a dir poco curiosa non smentiva l’assunto perché sostenevano che la giovinezza fosse un fatto interiore. E poi si trattava di un matrimonio mistico, altrimenti si doveva ammettere che il Cantico dei Cantici, che notoriamente e con molti secoli di anticipo celebrava l’unione di Cristo con la sua Chiesa, descrivesse una passione, l’amore carnale tra un uomo e una donna. Il che, con tutta evidenza, era inammissibile in un libro canonico come la Bibbia.

Al Laterano poi il cerimoniale diventava talmente complicato, pieno di simboli e di rimandi, che anche i teologi più acuti a volte alzavano le mani. In mancanza di una spiegazione teologica convincente, il cerimoniale dette perciò la stura a numerose e malevole leggende, in particolare durante la polemica protestante. Anche perché oggettivamente prestava il fianco, tanto era pieno di gesti inutili se non ridicoli almeno a occhi profani. Che senso aveva, per esempio, che il papa ricevesse gli omaggi dei cardinali seduto sulla nuda, scomodissima ed equivoca sedia stercoraria posta sotto il portico, anziché su quella più nobile posta nel coro della Basilica? E se bruciargli pezzetti di paglia o di stoppa sotto i piedi era un monito a non montarsi la testa, perché la gloria terrena era fuoco di paglia; tastargli nella circostanza i testicoli era solo un’indecenza. Salvo servisse a verificarne la virilità, col rischio di avvalorare allora la leggenda della papessa Giovanna. Ancora. Perché, condotto dal priore della Basilica nella cappella di San Silvestro adiacente al Sancta Sanctorum, il papa si doveva sedere, o meglio sdraiare come una partoriente, su una sedia di porfido e in quell’imbarazzante posizione doveva ricevere il bastone del comando, le chiavi della basilica e del palazzo? E perché subito dopo doveva riconsegnare il tutto ma sdraiato su un’altra sedia dello stesso materiale? Se il porfido richiamava la dimensione imperiale del pontefice, era arduo il collegamento, che facevano alcuni, delle due sedie con gli apostoli Pietro e Paolo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Autore articolo: Mario Cipollone

Bibliografia: M. Cipollone, San Giovanni in Laterano: tutta un’altra storia di Mario Cipollone, mmc edizioni – Roma

 

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