Alvise I Mocenigo, il doge della Battaglia di Lepanto

La sua ascesa politica fu impressionante. Alvise Mocenigo presiedè il Maggior Consiglio, poi il Senato, il Collegio dei Savi e il Consiglio dei Dieci. Si contraddistinse sempre per saggezza e grande eloquenza. Mocenigo, prima d’esser proclamato doge, era stato ambasciatore per Carlo V ed il Papa e ricoprì pure il ruolo di Provveditore nella Terraferma. Con tale incarico, quasi a sentire in anticipo l’avvenire, riordinò le milizie venete. Si legge infatti in P. Giustiniano che “ordinò molte cose utilmente et avendo assegnato alcuni giorni alle fanterie descritte per esercitarsi, fece correggere molti errori ch’erano nella milizia e risuscitò, come dire, l’esercizio di guerra”. Parliamo delle cernide o milizie del contado, istituite nel 1507, secondo il Bembo, con la scelta di quali contadini potessero portare armi. Un istituto nato nel 1490 quando si stabilì che i contadini “sopra ogni altro” apprendessero l’uso degli archibugi “ordinando che in ogni vico e villaggio, due giovani a quest’arme usare s’avanzassero; e questi d’ogni gravezza e tributo francarono…”. Era il 1565, cinque anni dopo Mocenigo fu eletto doge. Si era al principio della guerra di Cipro.

Quando venne eletto, il 15 maggio 1570, si era al principio della guerra di Cipro, e non mancavano sanguinose schermaglie tra Venezia e gli ottomani. Il fatto più grave si ebbe presso l’isola di Paro dove si scontrarono cinque galee turche, e due veneziane, comandante l’una da Angelo Suriano e l’altra da Vincenzo Maria Priuli. Quest’ultimo, senza accorgersi dei segnali di ritirata del Suriano che già aveva voltato la prora, ingaggiò battaglia e sottomise la galea del corsaro Cortuglì, poi, accerchiato da quelle di Precoja e di Matamoras, finì trafitto dalle spade turche assieme ai suoi trenta uomini. I nemici acconsentirono che le salme fossero degnamente sepolte sull’isola di Scio. Nel settembre iniziarono quelle tragiche operazioni che portarono alla perdita di Nicosia e Famagosta.

Mocenigo sapeva bene che ogni volta che la Serenissima aveva fatto la guerra ai turchi aveva perduto qualche pezzo del suo impero marittimo, dalle basi in Peloponneso alle isole come Negroponte; dai porti della terraferma greca come Lepanto a quelli albanesi di Prevesa e Durazzo. Stavolta Cipro, la propaggine più remota del Domino da Mar, possedimento veneziano da un’ottantina di anni, era stata regno crociato e, prima ancora, possedimento musulmano, era in serio pericolo. Venezia pagava al sultano un tributo annuo di 8.000 ducati in cambio della conferma del suo possesso e ciò confermava i turchi nella convinzione della loro sovranità sull’isola.

Tardivamente mobilitatasi la flotta cristiana, scrive Guglielmotti, “si vide cosa fossero sul mare i Veneziani, le loro galere, i loro remieri, i loro soldati, e quanto poco abbisogjassero degli altri soccorsi”. Se Francesco Duodo col fuoco devastante delle sei galeazze che comandava, assicurò la vittoria portando scompiglio nella flotta turca, Agostino Barbarigo, che comandava l’ala sinistra della flotta, ne impedì il ritorno spezzando le manovre di Mehmet Shoraq, comandante l’ala destra turca. Il suo sacrificio fu estremo. La sua galera si ritrovò circondata da cinque nemiche, finì bersagliata di colpi, ed il fanò, il grande fanale di poppa, fu tutto ricoperto di frecce. In questo trambusto, temendo che i suoi comandi non fossero compresi dai suoi uomini, si scoprì la faccia e restò così a dirigere le operazioni, fino a quando una freccia gli si conficcò nell’occhio sinistro dandogli la morte.  Il suo posto fu preso da Federico Nani e Silvio da Porda che, col soccorso di Antonio Canal, respinsero i turchi che avevano invaso la galera. Nella battaglia caddero 4856 veneziani e 4551 ne restarono feriti e l’eroismo di Barbarigo e dei suoi uomini fu eguagliato da tanti altri che andarono coraggiosamente incontro alla morte. Per esempio, da Benedetto Soranzo, comandante la galera Cristo resuscitado di Venetia, posizionata nell’ala destra, che, vedendosi l’equipaggio sterminato dagli ottomani, l’imbarcazione ormai invasa dal nemico e trovandosi lui stesso gravemente ferito da tre colpi d’ascia, preferì appiccare il fuoco alle munizioni e morire con i turchi piuttosto che finire nelle loro mani. Parecchie famiglie contarono più di una vittima, pensiamo ai Cornaro, i tre fratelli Girolamo, Francesco e Sebastiano caddero nella battaglia, parecchie ne furono per sempre segnate, pensiamo a Filippo Pasqualigo che a dodici anni si ritrovò sulla galea il Crocifisso e se ne vide spirare fra le braccia il sopracomito, suo fratello Antonio.

“La vittoria già avuta con le forze della lega contro il Turco, fu grande per il numero dei legni presi, fu rara per li schiavi liberadi, fu famosa per la potentia rotta, fu formidabile per le genti di spada morte, fu gloriosa per la superbia oppressa, fu terribile per la riputation acquistada. E niente di manco, non si fece acquisto pur di un palmo di terreno. O ignominia et vergogna incomparabile di collegadi, che quanto honor acquistorno nel conseguir la vittoria, altrettanto ne perdeno in non proseguirla”, scrisse Graziani nel De Bello Cypro. Nel frattempo gli ottomani avevano allestito in tempi incredibili una nuova armata. La vittoria non fu seguita da più decisive battaglie. Venezia lo voleva, ma si ritrovò sola. Con troppi caduti e carente di viveri in una stagione già molto avanzata, accantonò i propositi di continuare il conflitto.

Mocenigo convenne la pace tra Venezia ed i turchi. Le negoziazioni iniziarono a Pregadi il 4 aprile del 1572 e durarono fino alla primavera seguente. Siglata nel marzo del 1573, la pace riconosceva al sultano il possesso di Cipro. E’ giusto puntualizzare che il Senato, benché competente nelle questioni di guerra e pace, fu tenuto di tutto all’oscuro. Le trattative furono condotte per ordine del Consiglio dei Dieci e portate avanti dall’ambasciatore veneziano presso la Sublime Porta, Marcantonio Barbaro. I Dieci, non era la prima volta, s’arrogavano la competenza su faccende di grande rilievo. Fu solo a partire dal 1582 che il Maggior Consiglio cominciò a porre un argine allo strapotere dei Dieci dando facoltà agli Avogadori di sospendere e riferire al Senato quando i Dieci avessero ecceduto nell’esercizio delle loro competenze.

L’anno seguente la flotta turca riconquistò Tunisi, occupata da Giovanni d’Austria nel 1573, prese il forte della Goletta e ristabilì la dominazione ottomana nell’intero Nord Africa. Alla fine la vittoria di Lepanto andò dissipata.

Il resto del dogato di Mocenigo non passò sotto migliori auspici: un incendio distrusse il Palazzo Ducale nel 1574 e l’anno dopo esplose una virulenta epidemia. In tale circostanza seguì da vicino gli eventi concertando col Senato tutte le cure necessarie per frenare il morbo e spedire soccorsi dentro e fuori Venezia. Nella festa della Natività di Maria, l’8 settembre di quell’anno, a nome del popolo, proferì nella Basilica di San Marco il voto di erigere un tempio al Redentore per ottenere la liberazione dal contagio e, nel maggio del 1577, ne pose la prima pieta alla Giudecca. Morì sul finire del mese, senza poter vedere la sua Venezia libera dalla peste. Fu portato nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo, tumulato insieme a sua moglie Loredana Marcello.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: G. Giurato, Lepanto, in Archivio Veneto

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