Otranto 1480

L’estate scorsa mi sono ritrovato a percorrere quelle strade di Otranto che sono state proscenio di un drammatico episodio della storia avvenuto nell’estate 1480, e di cui ormai si è quasi persa la memoria. Memoria recuperata grazie ad alcuni importanti testi, alcune ricerche storiche di pregio ma anche un memorabile romanzo storico che ha di fatto ridato voce ai protagonisti di allora, “L’ora di tutti” di Maria Corti.

I fantasmi di Idrusa, mastro Natale e del capitano Zurlo sono talmente sbiaditi che a stento si riesce a percepirli tra i negozi di souvenir e i turisti in mutande e canottiera. Eppure dalla toponomastica ai richiami delle attrattive turistiche, continui sono i riferimenti alla presa di Otranto da parte dei turchi, si direbbe nel tentativo di tenerne viva la memoria. Ma l’effetto è distorcente: troppo superficiale e poco incisivo il rapporto tra la storia e chi ci si accosta in vacanza tra un bagno e l’altro.

Ho visto le mura scalate dai giannizzeri, ho visto le enormi palle di cannone che Gedik Ahmed Pascià fece piovere sulla città in quelle due settimane di assedio, e ho visto il triste tributo degli 800 decapitati poco fuori le mura, le cui povere ossa riposano oggi nella cattedrale: i martiri li chiamano adesso, ma di martirio aveva ben poco quell’eccidio. A nessuna delle vittime fu chiesto di scegliere tra rinnegare il proprio Dio e sopravvivere oppure morire, questa è la favola che doveva fare presa sui posteri: se di martirio si vuole proprio parlare allora si deve parlare di un laico martirio degli ultimi, di quelli che non hanno voce in capitolo e a cui nessuno ha chiesto se combattere o meno, ma che alla fine hanno pagato le conseguenze delle scelte altrui.

Oggi, chi si aggira tra i tortuosi vicoli di quella stessa città deve alzare lo sguardo poco al di sopra dei tanti esercizi commerciali per turisti per riuscire a cogliere un barlume dell’anima di quel borgo di pescatori.

L’eco degli scontri casa per casa è lontana (e forse questa è davvero una fortuna), l’ultima resistenza disperata dei pescatori otrantini contro gli agguerriti giannizzeri è solo un flebile ricordo. Quella che qualcuno ebbe a chiamare l’ora di tutti, oggi è l’ora di nessuno.

Ironia della sorte è proprio alzando lo sguardo che mi accorgo, tra gruppi di turisti distratti, dell’insegna di una piccola e curata boutique: “la casa di Idrusa”, e mi scappa un sorriso. Idrusa è solo un fantasma, una donna che aveva segnato il destino nel nome, una donna diversa, un’icona immaginaria ed immaginifica, una donna fragile, una donna innamorata, eppure se avessi mai dovuto immaginarla quella casa che Idrusa divideva col marito che non amava, e nella quale consumava le sue notti d’amore con l’ufficiale spagnolo che poi la ferirà nell’orgoglio, forse l’avrei immaginata proprio così.

Qualcosa dunque sopravvive ancora di quelle anime perse più di cinque secoli fa, nonostante tutto.

Ma cosa era successo in quell’estate del 1480? Improvvisamente dai bastioni della città le vedette avvistarono vele turche. Decine di navi cariche di guerrieri. Era il 28 luglio 1480.

I turchi sbarcano a pochi chilometri a nord di Otranto ed io già lo so cosa state pensando, voi abitanti della Penisola nell’AD 2020: scontro di civiltà; lotta all’infedele, crociata, cristianesimo contro Islam. Ma nulla fu più lontano dal vero in questa drammatica vicenda della storia. Come spesso accade le motivazioni religiose vennero utilizzate per nobilitare, o meglio per ammantare di un elemento ideologico, scelte politiche che di nobile ed ideologico avevano poco o nulla, e molto invece di cinica volontà di predominio. “Molti degli otrantini mai si sarebbero aspettati di veder scivolare una galea turca nel porto, lentamente, con atteggiamento tutt’altro che ostile, oscillando leggera in quelle acque non troppo profonde, che tendevano ad agitarsi soprattutto allo spirare dei venti di grecale e levante. Men che meno avrebbero potuto immaginare che il vascello recasse ritto sulla tolda lo spaventoso, l’abominevole, il crudele Gedik Ahmed Pascià in persona”.

Il comandante turco si esponeva in prima persona a parlamentare, contando sulla propria fama mirava ad ottenere una immediata resa della città. La prima cosa che disse agli assediati fu che non sarebbe arrivato nessuno a salvarli, non c’erano truppe aragonesi in arrivo, e diceva il vero, conoscendo meglio di chi occupava la città la situazione politica italiana. Poi passò alle promesse: a nessuno sarebbe stato torto un capello e le proprietà sarebbero state rispettate se i cittadini si fossero sottomessi.

E anche qui immagino cosa stiate pensando: mai piegarsi ad un invasore!

Ma quello che proponeva il comandante turco agli otrantini non era altro che passare da un sovrano ad un altro, dalla monarchia aragonese di Ferrante all’impero di Mehmet, un impero che ricostituiva e riportava all’unità le antiche province dell’Impero Romano d’Oriente. Non era necessario convertirsi all’Islam, anzi per continuare a professare apertamente il cristianesimo sarebbe stato sufficiente pagare imposta di capitazione non certo esosa, la jiziya che gravava sui cristiani e sugli ebrei (i cosiddetti dhimmi “protetti”, in quanto monoteisti predecessori degli islamici sulla via del perfezionamento spirituale dell’umanità).

Ora immaginate di essere un pescatore otrantino costretto a pagare pesanti tasse e a rimanere bloccato nella propria condizione sociale per l’eternità in un contesto feudale immobile da secoli, cosa avreste potuto pensare dell’offerta ottomana di modernità e forte mobilità sociale (il più umile contadino serbo poteva vedere il proprio figlio ascendere alla carica di Gran Visir dell’Impero). Era piuttosto chiaro che gli ultimi, i più poveri, i più deboli, sottomessi alle dure vessazioni dei feudatari meridionali, si sarebbero verosimilmente avvantaggiati col cambio di governo.

Ma pensate che qualcuno glielo avrebbe mai potuto spiegare? Non certo i capitani comandanti della piazza otrantina che nel nome di un sovrano che non avevano mai visto e di una dinastia distante decisero di portare il popolo di Otranto allo scontro totale con la più potente macchina bellica dell’epoca.

Nessuno avvisò il popolo che la mancata resa e la conquista della città d’assalto avrebbero verosimilmente condotto ad un massacro e che si sarebbe salvato soltanto chi avesse avuto abbastanza denaro per pagarsi il riscatto.

Oltretutto il capitano Zurlo che comandava il presidio otrantino decise inopinatamente di sparare un colpo di bombarda all’indirizzo del comandante turco che si stava ritirando dopo aver portato le proprie condizioni, facendo infuriare Gedik Ahmed Pascià per il mancato rispetto di un’ambasceria che rappresentava un aspetto rituale sacro per i turchi.

Nessun accordo dunque, ci sarebbe stata battaglia. Sedicimila ottomani, tra cui i formidabili giannizzeri contro duemila soldati asserragliati in Otranto tra cui molti semplici pescatori armati alla meglio.

E dov’era l’esercito aragonese? Semplice, ad assediare fortezze in Toscana in una guerra che si trascinava da mesi contro i Medici, in quello scacchiere italiano che era un continuo proliferare di conflitti. Non è un caso che diverse ambascerie e messaggi furono inviati in quel periodo proprio da Firenze all’indirizzo del Sultano per dichiarare amicizia ed alleanza, non è un caso se Venezia si rifiuterà anche in seguito di prendere le armi contro gli ottomani. Come vedete nessuna remora di base religiosa a stringere alleanze con il Sultano turco contro un regno cristiano. Quindici giorni riuscirono a reggere gli assediati male armati e sprovvisti di artiglierie poi lo sfondamento e l’inizio della mattanza. Le truppe turche uccisero e fecero schiava la maggior parte della popolazione della città.

Secondo lo storico Bianchi non vi fu nessuna richiesta di conversione all’Islam da parte del comandante turco, richiesta che una volta rifiutata, in base alla narrazione postuma, avrebbe condotto al “martirio” di ottocento otrantini massacrati per essere voluti restare cristiani. In realtà come spiega Bianchil’inesorabilità dei codici guerreschi imponeva al sangiacco [Gedik Ahmed Pascià] di punire esemplarmente il rifiuto alle proposte di resa, la cannonata che gli avevano sparato addosso durante le trattative, la resistenza disperata che era stata opposta alle sue forze soverchianti. L’Olocausto andava celebrato spettacolarizzando le liturgie del dolore, conferendo una calcolata teatralità allo sterminio dei vinti, con lo scopo di scandire visivamente l’ineluttabilità della sconfitta e consacrare la fama sinistra, terrifica, del comandante ottomanoL’enfasi dell’ecatombe rispondeva ad una precisa strategia di deterrenza terroristica, diretta a inibire psicologicamente le popolazioni delle località da aggredire nelle settimane seguentiMa non vi fu niente di religioso in quel massacro, che più prosaicamente era lo strascico di una contesa atroce, la maniera cruenta terribile eppure usuale, di regolare nelle guerre i conti con gli sconfitti. Non vi fu nessuna richiesta di abiura, nessun ricatto di fede o martirio Cristiano: gli eventi erano ormai giunti ad un punto di non ritornoL’insipienza, l’indolenza, la protervia e gli intrighi avevano spalancato le porte dell’Italia ai Turchi. La strage di Otranto era il prezzo pagato da un’incolpevole comunità di Pugliesi agli equilibri instabili, ai maneggi diplomatici, ai calcoli politici degli Stati italici”.

Lo descrive bene ancora Maria Corti nel suo romanzo dando voce al capitano Zurlo: “[…] il 28 luglio dell’anno 1480 il mondo spalancò le nostre porte ed entrò. Quando le prue delle galee saracene presero la direzione del porto, io ero sulla torre alta del castello, da dove si assisteva bene alla scena del nostro destino; io solo sapevo che dietro il vento a sbattere quelle vele c’erano fazioni politiche, discordie di governi, trame di ministri, un assieme per il quale tutti coloro che a Otranto nel luglio del 1480 erano in ottime condizioni di salute, in breve tempo avrebbero definitivamente cambiato natura. Lo sapevo, me lo dicevo tra me e me, mentre i poveri otrantini, che non sapevano niente, attendevano ordini. Avevo milleduecento uomini alle mie dipendenze, ottocento otrantini e quattrocento napoletani […]. L’indomani, indossando la corazza e legando le maglie, non potei non rammaricarmi della vita, che alla mia esattezza di calcolo rispondeva sempre con una sorta di confusionaria imprecisione“.

Il Sultano turco all’epoca era Mehmet II, detto Fātiḥ, “Il Conquistatore” epiteto che aveva ottenuto realizzando nel 1453 quell’impresa in cui molti prima di lui avevano fallito: prendere Costantinopoli e trasformarla nella capitale del nuovo impero ottomano, un impero che sotto la sua guida illuminata voleva nelle intenzioni raccogliere il testimone dell’Impero Romano. Nella forma questo venne ribadito più volte dallo stesso Sultano, e nella sostanza la “riconquista” delle province italiche dell’impero era il nuovo sogno di quell’uomo ambizioso.

Nelle lettere inviate da Gedik Ahmed Pascià ai potentati italici traspariva questa realtà diplomatica in maniera chiara. I turchi rivendicavano il Principato di Taranto che da secoli era considerato una sorta di stato nello stato nella realtà del Regno di Napoli, e lo facevano sulla scorta dell’autorità concessa loro dall’essere gli eredi dell’antico Impero romano. Nessuna contesa religiosa, tanto più che le loro motivazioni facevano breccia in diverse cancellerie e di sicuro tra alcuni nobili dell’area interessata da sempre in contrasto con la corona aragonese.

Diplomazia e politica dunque, nessuno scontro ideologico, nessuno scontro di civiltà, quella sarà semmai la retorica che nell’immediatezza della riconquista di Otranto gli aragonesi utilizzeranno per cementare quanto ottenuto, tra l’altro con la diplomazia più che con le armi, e grazie ad un evento inaspettato quanto foriero di importanti risvolti: la morte di Mehmet II ed il cambio al vertice dell’impero.

Il Medioevo era agli sgoccioli per chi ritiene che lo spartiacque fosse la scoperta di un nuovo continente o la discesa di Carlo VIII in Italia, ed era praticamente finito per chi invece pensa che si fosse sgretolato come le mura di Costantinopoli sotto i colpi della nuova artiglieria ottomana; l’Italia ed il mondo da lì a breve sarebbero cambiati, ma è sempre bene ricordare che la storia è un lungo intreccio di eventi che negli scontri hanno prodotto anche incontri e che noi abbiamo il dovere di riscoprire pezzo per pezzo per capire chi siamo.

 

 

Autore articolo: Giuseppe De Simone

 

Bibliografia: M. Corti, L’ora di tutti, Bompiani; V. Bianchi, Otranto 1480 – il sultano, la strage, la conquista

 

 

 

 

Giuseppe De Simone, laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia.

Giuseppe De Simone

Giuseppe De Simone, laureato in Scienze Politiche indirizzo storico, presso la Sapienza – Università di Roma, con una tesi in Storia Militare su “L’esercito francese e la Guerra d’Algeria”, è studioso di storia del Mezzogiorno d’Italia.

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