Rimbaud ad Harar: l’incontro con gli italiani

L’ultimo rifugio di Arthur Rimbaud, il luogo da dove sognava di tornare «con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente» e da cui invece ripartì in fin di vita su «una barella coperta da una tenda», è una remota cittadina sull’altopiano etiopico che sovrasta i torridi deserti dell’Ogaden e della Dancalia. Harar, fondata nel X secolo, è uno dei più antichi insediamenti urbani dell’Africa orientale e la quarta città santa dell’Islam dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme, con oltre ottanta moschee all’interno dei bastioni medievali che racchiudono il borgo di Jugol. Harar non era così accogliente quando nel gennaio 1855 vi penetrò, primo europeo, Richard Francis Burton, l’esploratore inglese che con John Speke scoprirà le sorgenti del Nilo bianco.

Seconda città etiope, Harar è da sempre la porta verso la depressione dancala, o meglio la porta del nulla, visto che ancora oggi la Dancalia è considerata il luogo più crudele della faccia della terra, abitato dai temibili Afar. Enclave musulmana in terra cristiana, essa si presenta con i suoi muri bianchi e merlati, come un’illusione di antica normalità yemenita in un mondo da sempre irrequieto. Gli arabi fecero di questa città un avamposto commerciale perfetto ai primi del Cinquecento, con l’intento di espandere la loro influenza su tutta l’Etiopia. E da qui partirono le armate di Gran il mancino, che misero a ferro e a fuoco l’Etiopia cristiana, che si dovette difendere asserragliandosi nei monasteri del Tigrai, e in particolare a Debra Damo, e che si salvò solo grazie all’aiuto dei portoghesi.

Burton, che trascorse una decina di giorni ad Harar, ospite-prigioniero dell’emiro Abu Bakr, narra di una popolazione sfigurata dal vaiolo e dalla lebbra, abbrutita dal consumo di birra, d’idromele e di foglie di khat, un arbusto ricco di alcaloidi dagli effetti euforizzanti, simile alla coca o alla benzedrina. Salva solo le donne «dai larghi occhi e dalla pelle chiara» ornate di gioielli d’argento e corallo, con «le palpebre abbellite dal khol e mani e piedi dipinti di henna». L’attività principale, conclude, è «il commercio di schiavi, di avorio, di caffè».

Ma cosa spinse effettivamente Rimbaud verso Harar? Nel 1869 l’apertura del canale di Suez accorciava di un terzo la distanza tra l’Europa e l’India: l’Africa orientale si apriva al mercato mondiale, le potenze europee miravano al controllo del Mar Rosso, e tra esse vi era anche l’Italia, che nel febbraio del 1885 sarebbe sbarcata a Massaua col beneplacito dell’Inghilterra (complice la rivolta mahdista sudanese). E al seguito delle guarnigioni militari arrivavano i commercianti. Rimbaud è un’anima in pena. Ha pubblicato, con scarso successo, Una stagione all’inferno e ha in tasca Le Illuminazioni, ma ha ormai rinunciato alla poesia. Non sopporta più il gretto ambiente piccolo borghese di Charleville, nelle Ardenne, dove la madre bigotta vive in una fattoria di campagna. Disgustato, lascia la Francia, gira per l’Europa, l’Asia, il Medio Oriente. A Cipro ha un lavoro precario, ma deve andarsene inseguito dall’accusa di avere causato la morte di un operaio. A ventisei anni approda infine ad Aden, in Yemen, dove accetta un impiego dalla ditta di un francese. Alfred Bardey, che lo spedisce in Abissinia a soprintendere le spedizioni di caffè e altre mercanzie.

Nel gennaio del 1881 Rimbaud si spinse all’interno dell’Etiopia per cercare avorio nei paesi dei Galla e per dedicarsi alla caccia agli elefanti. Raggiunse Bubasa, sede di un fiorente mercato degli schiavi gestito dagli arabi e dove nessun europeo era mai arrivato. A partire da febbraio, le sue lettere rivelavano uno stato di profondo malessere. In una lettera del 25 agosto 1883 indirizzata ai suoi datori di lavoro, Rimbaud descrive l’uccisione del nostro esploratore Pietro Sacconi: la spedizione di quest’ultimo venne sopraffatta a circa 250 km da Harar in data 11 agosto. Tra le cause dell’eccidio rientravano, secondo Rimbaud, anche il cattivo comportamento del Sacconi stesso, «[…] che ha contrariato (per ignoranza) il costume, le abitudini religiose, i diritti degli indigeni». Il Sacconi vestiva infatti all’europea, si nutriva di prosciutto tra gli islamici, vuotava bicchierini di alcolici durante i raduni con gli sceicchi locali, teneva sedute geodetiche sospette e attorcigliava sestanti ad ogni angolo di strada. Inoltre, non acquistava nulla dai commercianti locali e si prefiggeva il «solo» scopo della «conquista geografica».

Nel settembre del 1885, in una lettera indirizzata al nostro esploratore Augusto Franzoj, Rimbaud dice di aver «mandato via quella donna irrevocabilmente». Questa lettera appare alquanto interessante in quanto è forse l’unica fonte scritta che getta una qualche luce sui rapporti tra Rimbaud e l’altro sesso. Un grande mistero caratterizza questo aspetto della vita del poeta francese, che alla fine si ammalò gravemente, probabilmente per la sifilide (ma non è del tutto certo nemmeno ciò). Dal 1885 l’occupazione principale di Rimbaud ad Harar risulta la vendita di caffè: egli si trova a disagio nella situazione di dipendente subalterno che occupa, così alla fine lascia i Bardey agli inizi di ottobre dopo un grave alterco, decidendo di tentare la sorte con la vendita di armi. In quel periodo, il Menelik, re dello Scioa, e l’imperatore etiope Giovanni erano ai ferri corti e cercavano di rifornirsi di armi. Tra gli occidentali che gliele rifornivano c’era soprattutto il nostro conte Pietro Antonelli, il principale fautore della politica pro-scioana: peccato che i fucili venduti dall’Antonelli al Menelik verranno in seguito utilizzati contro le truppe italiane ad Adua nel 1896!

Così il grande poeta francese vorrebbe trafficare fucili logori ed obsoleti per conto di Pierre Labatut, e intende organizzare la prima carovana d’armi. Sbarca a Tagiura per preparare la spedizione ma nel 1886 incontra difficoltà impreviste, restando bloccato. Il 17 aprile il governo francese scrive al sultano di Tagiura per riferirgli che deve rifiutare il transito delle carovane d’armi. Ma nel momento in cui le difficoltà sembrano risolte, Labatut si ammala e ritorna in Francia, dove muore per il cancro. Allora Rimbaud si associa a un nuovo mercante, Paul Soleillet, che muore anch’egli per una congestione il 9 settembre. All’inizio di ottobre, Rimbaud si muove così con la sua carovana verso Ankober, capitale dello Scioa. Su trenta cammelli porta duemila fucili di Liegi antidiluviani e settantacinquemila cartucce. La marcia è faticosissima, e attraversa un paesaggio desolato, lunare. Dopo quattro mesi di marcia estenuante, il 6 febbraio 1887 Rimbaud arriva finalmente ad Ankober, ma il Menelik non è lì. È a Entotto a dare battaglia all’emiro di Harar. Rimbaud decide allora di andare ad Entotto, dove svende il materiale cumulando perdite disastrose. Il 1° maggio riparte da Entotto insieme all’esploratore francese Jules Borelli e ritorna ad Harar, dove il ras Maconnen gli versa 8500 talleri per le consegne di armi ma solo in forma di cambiali tratte.

Robecchi Bricchetti, l’esploratore italiano che qualche anno più tardi sarà il primo occidentale ad attraversare la penisola somala, si imbarcò per Massaua nella primavera del 1888 per giungere, l’8 luglio, ad Harar, dove rimase fino al 25 marzo 1889 cercando di organizzare la ricognizione del territorio e di collaborare con ras Malone, per conto del quale costruì una chiesa abissina sui resti di un’antica moschea. In quel periodo frequentò Arthur Rimbaud, di cui elogiò (nonostante gli insuccessi) le qualità di commerciante e con il quale trascorse il Natale del 1888. Su una ventina di europei residenti nello Scioa, più della metà erano fermi ad Harar. Robecchi Bricchetti era reduce da un primo viaggio esplorativo in Somalia e doveva partire per il Caffa, ma questa spedizione andò a monte. Rimase ad Harar fino al 25 marzo 1889, viaggiando in lungo e in largo.

Le principali vie di comunicazione dalla costa eritrea e somala portavano ad Harar e nello Scioa. Tre grandi vie carovaniere emergevano su tutte: quella di Zeila, di Obock-Tagiura e di Gibuti, tutte studiate e percorse da Rimbaud durante i suoi molti viaggi. La prima era sotto il controllo britannico, e le altre due sotto quello francese. Gli italiani tentarono di avviare una loro strada commerciale alternativa che partiva da Assab (che nel 1882 era stata rilevata dal governo italiano dalla Compagnia Rubattino) verso lo Scioa, ma ebbero scarsa fortuna. Come abbiamo già visto, Giuseppe Maria Giulietti, che era arrivato ad Harar da solo nell’ottobre 1879, fu massacrato dai Dancali l’11 aprile 1881, e fu seguito a stretto giro da Bianchi e da Pietro Porro.

Robecchi Bricchetti, pur frequentando Rimbaud, ma non riuscì mai a penetrarne la complessa personalità. Diversamente, molto più profonda fu l’amicizia tra Ottorino Rosa e Rimbaud. In quella che era la numerosa colonia italiana ad Harar, Rimbaud si trovava comunque a suo agio. Non giudicava mai gli italiani, pur restando fortemente scettico sulla politica coloniale dell’Italia. In una lettera inviata all’Ilg il 1° febbraio 1888, Rimbaud, con riferimento alla conquista di Massaua da parte italiana avvenuta nel 1885 scrive: «[…] faranno la conquista dei panettoni vulcanici disseminati fino a una trentina di chilometri da Massaua, li collegheranno con delle ferrovie da quattro soldi e, arrivati, a quei punti estremi, faranno partire qualche scarica di obici sugli avvoltoi e lanceranno un aerostato infiocchettato con qualche motto eroico». Come ha scritto Carlo Zaghi nel suo monumentale Rimbaud in Africa, Rimbaud ammirava comunque l’ardimento degli italiani, che li portava ad avviare le loro imprese con assoluta insufficienza di mezzi, incoscienza e disorganizzazione. Da ex-poeta surrealista vedeva nelle loro imprese il disprezzo della vita, che veniva spesso sacrificata inutilmente.

Il 1888 fu un altro anno di pene e di sofferenze per Rimbaud, che in una lettera inviata ai familiari da Harar il 4 agosto dice di annoiarsi molto. Nelle prime settimane dell’anno risiede ad Aden e cerca di organizzare uno sbarco clandestino di armi e redige alcune note e notizie sull’Abissinia per i giornali parigini che i più considerano inverosimili e mistificatorie. Verso marzo parte per Ambado e da lì a cavallo, attraversando 600 km in undici giorni, ritorna ad Harar. Il 16 aprile sbarca a Zeila, per raccogliere tremila fucili e cinquecentomila cartucce, ma anche questo tentativo finisce male. Il 15 maggio gli viene rifiutata l’autorizzazione al trasporto di armi. Rimbaud rinuncia così definitivamente al commercio delle armi e decide di fondare ad Harar una sua agenzia commerciale. Agli inizi del 1889 l’imperatore etiopico Giovanni è vinto ed ucciso dai rivoltosi mahdisti, e Menelik, già re dello Scioa, diventa il nuovo imperatore etiopico, e agli inizi di febbraio del 1891 Rimbaud comincia a soffrire di un violento dolore al ginocchio destro. Sarà solo l’inizio del suo calvario. Il 7 aprile, adagiato su una barella, si mette in viaggio per dodici penosi giorni per andare a Zeila, e da lì arriva ad Aden: su consiglio di un medico dell’ospedale inglese, decide di tornare in Francia, trasportato sull’Amazone. Sbarcato a Marsiglia il 20 maggio, viene subito trasportato in un ospedale dove gli amputano la gamba. Viene dimesso ma il cancro avanzava inesorabile. Il 23 agosto riparte per Marsiglia per farsi ricoverare nuovamente. Dopo una penosa agonia il 10 novembre, alle dieci del mattino, la morte sopraggiunge come una liberazione.

Il Corno d’Africa, in fondo, è sempre quello descritto da Rimbaud: la guerra infuria in Somalia e in Yemen; a Gibuti s’importano tonnellate di armi per le basi militari americane, francesi, italiane, cinesi; il mare è infestato dai pirati; il commercio del khat e di altre droghe non è mai stato così florido. E i migranti etiopi, molti di etnia Oromo, in fuga dai conflitti etnici o in cerca di un lavoro, continuano a percorrere le antiche piste delle carovane degli schiavi che dai deserti etiopici portano ad Obock, e da lì, attraverso la pericolosa traversata del Bab el-Mandem, sbarcano in un paese in guerra (lo Yemen) per tentare di raggiungere l’Arabia Saudita, dove nella migliore delle ipotesi (e se non moriranno lungo il tragitto) verranno trattati come i nuovi schiavi del Ventunesimo secolo.

E anche Harar non è cambiata molto dalla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento. Pur invasa da antiquate Peugeot 404 e dai bajaj, i moto-risciò importati dall’India, e malgrado nei nuovi quartieri i cinesi costruiscano alberghi, stadi sportivi e opere spropositate, il borgo di Jugol non è molto diverso dai tempi di Rimbaud. Il mulino macina il teff, il cereale per la tradizionale injera. Al mercato sono in vendita spezie, incenso e grani di caffè. Le donne portano in testa pesanti fascine di legna e dalla campagna, su carretti tirati da asini, arrivano gli ortaggi che le contadine stendono sull’acciottolato dei vicoli. In via Makina Girgir i sarti cuciono stoffe con le «macchine che girano», le vecchie Singer a pedale. Di notte, oggi come allora, le woreba, le iene che ripuliscono i vicoli dall’immondizia, non sono solo un’attrazione per turisti. Gli abitanti le credono in contatto con il mondo degli spiriti e Rimbaud rischiò il linciaggio quando per liberarsi dei cani che orinavano sulle sue merci finì con l’avvelenare i sacri spazzini.

 

 

Autore articolo: Alessandro Pellegatta

Bibliografia:  C. Zaghi, Rimbaud in Africa. Con documenti inediti; A. Rimbaud, Opere complete; R. Bricchetti Luigi, Nell’Harrar

 

 

 

Alessandro Pellegatta è uno scrittore appassionato di letteratura di viaggio, storia coloniale e dell’esplorazione. Tra le sue ultime pubblicazioni storiche ricordiamo Manfredo Camperio. Storia di un visionario in Africa (Besa editrice, 2019), Il Mar Rosso e Massaua (Historica, 2019) e Patria, colonie e affari (Luglio editore, 2020). Di recente ha pubblicato un volume dedicato alla storia dell’esplorazione italiana intitolato Esploratori lombardi.

 

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