Risorgimento e revisionismo. Intervista a Marco Vigna

Il dottor Marco Vigna è collaboratore di siti e testate giornalistiche nazionali a carattere storico, profondamente coinvolto nella divulgazione di approfondimenti risorgimentali. Lo ringraziamo per l’intervista che ci ha gentilmente concesso intrattenendosi con noi a discutere di Risorgimento e revisionismo.

 

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Oggigiorno conosce una notevole diffusione il cosiddetto “revisionismo del Risorgimento”, che però è largamente criticato dagli storici universitari. Queste critiche sono fondate e perché?

La diffusione dell’ideologia del cosiddetto revisionismo del Risorgimento si presta ad una serie di considerazioni. Coloro che propalano il cosiddetto revisionismo abitualmente si servono di una serie di canovacci, che non hanno alcun valore storiografico ed in generale “scientifico”, sono invece utili e funzionali come mezzi di propaganda ed indottrinamento:

Si ha il ricorso alle categorie di amico/nemico, al posto di quelle di vero/falso. Coloro che rifiutano l’ideologia revisionista o peggio ancora si oppongono ad essa sono descritti come “venduti” o “traditori” se meridionali, “oppressori, colonialisti, leghisti” se sono settentrionali. Tutti divengono “nemici del Meridione”. Si attua quindi una pressione psicologica diretta sia all’interno, verso la comunità virtuale dei sostenitori, sia all’esterno, in direzione di chi è indifferente o contrario. S’esercita in questo modo un ricatto morale, perché chi rifiuta l’ideologia revisionista è criminalizzato. Il meccanismo è tangibile nelle aggressioni concertate che sono spesso condotte nelle discussioni in Rete, in cui arrivano gruppi di esagitati ad insultare, schernire, talora minacciare coloro che nel dibattito s’oppongono alla fanta-storia nostalgica delle Due Sicilie. Si cerca così di occupare lo spazio mediatico sulla Rete con un’azione da branco con cui schiacciare ed inibire le critiche;

Gli storici accademici, che praticamente per intero (con rarissime eccezioni) sono agli antipodi di questa ideologia, vengono dipinti quali “mercenari”, “massoni”, “prezzolati”. Si adotta qui il principio secondo cui, se non si può distruggere il ragionamento, si deve provare a distruggere il ragionatore. Non potendosi obiettare nulla di sostanziale allo sterminato patrimonio di conoscenze storiche acquisite, che confutano la favolistica borbonica, si ricorre all’attacco personale agli studiosi;

Si mescolano arbitrariamente cronaca contemporanea e storia passata, per indurre ad una arbitraria confusione e sovrapposizione. Ad esempio, se un’azienda meridionale fallisce nel 2019, ciò che può avvenire per le ragioni più diverse, si parla di Cavour. Sorge una polemica giornalistica sulla camorra di Napoli, dovuta ad un fatto di cronaca? La banalità è forzatamente ricondotta ad una presunta avversione razzista dei settentrionali verso i napoletani, che si pretende pure d’inquadrare nel contesto del Risorgimento! Sarebbe “colpa di Garibaldi”. Tale modus operandi è la negazione del senso storico, ma risulta efficace nel suscitare reazioni emotive ed irrazionali;

La conferma delle proprie tesi è spesso realizzata con un ragionamento circolare. Un “revisionista” cita preferibilmente scrittori della propria parte, senza che nessuno sia uno storico professionista, che a loro volta utilizzano lo stesso modo di fare. Nel tentativo di puntellare un’ipotesi storica, sbagliata, Tizio cita Caio, che aveva cita Sempronio, il quale prima ancora aveva citato Tizio. Il risultato finale è che Tizio cita Tizio: un classico caso di tautologia, del genere «è così perché lo dico io», sviluppato ricorrendo a trucchi da giocatore delle tre carte. Altre volte si ha una sorta di effetto valanga, in cui un errore storico od un falso storico sono progressivamente ingranditi in una sequenza di riformulazioni. Tizio scrive di 100.000 morti sul brigantaggio. Caio cita Tizio ed ipotizza sull’esclusiva base dei suoi calcoli che ve ne siano stati anche di più, 200.000. Arriva Sempronio, cita i primi due e conclude che i morti sono stati 500.000. Giunge Mario, cita i tre che lo hanno preceduto ed argomenta appellandosi a loro che i morti siano stati 1.000.000. A questo punto ritorna Tizio, che cita Mario e conclude che quella cifra è vera. È la deformazione parodistica dell’uso delle citazioni che viene fatto nella letteratura scientifica.

La pubblicistica, non storiografia, del “revisionismo del Risorgimento” è un tambureggiamento di slogan. Tale termine originariamente indicava un grido di battaglia ed era sorto per imitazione, ossia onomatopea, del suono prodotto da un martello che batte sull’incudine.  Lo slogan pertanto è un’incitazione alla lotta e non un ragionamento. Il vocabolo esprime un concetto antitetico all’ellenico logos, che invece racchiude, similmente al sanscrito dharma, l’idea di un sistema complesso ed organico di comprensione e conoscenza razionali. Alcuni fautori del “revisionismo” addirittura rivendicano l’utilizzo strumentale che compiono della storia, ridotta a serva della loro ideologia, poiché dicono di volere fare politica servendosi proprio della storia. È un’ammissione che riconosce ciò che comunque era evidente. Un principio basilare di ogni scienza, incluse quelle umane, è la separazione netta da ogni forma di condizionamento, sia esso religioso, politico o di altra natura. In storiografia e sociologia ciò è stato affermato da alcuni fra i padri di queste discipline, Leopold von Ranke e Max Weber, che hanno posto il requisito dell’oggettività, dunque dell’imparzialità.

Gli autori “revisionisti” non sono storici universitari, quasi mai hanno un’istruzione accademica, soltanto sporadicamente fanno ricorso a ricerche originali. Sul piano strettamente scientifico potrebbero e dovrebbero essere ignorati. La diffusione delle loro ipotesi avviene con il ricorso a mezzi che sono propri del mondo della propaganda politica o della pubblicità ed estranei alle comunità scientifiche.

 

La storiografia accademica sul Risorgimento ha dei limiti e sono necessari ancora oggi approfondimenti su alcuni aspetti del periodo?

Il revisionismo sorge dai limiti della storiografia del Risorgimento, ma non nel senso di un tentativo di migliorarla, bensì come figlio spurio ed illegittimo di questi limiti stessi. Questo punto va spiegato.

Tutto ciò che è storico risulta relativo per definizione: questo è banale. Pertanto, è ovvio che anche la storiografia debba essere interpretata storicamente, tanto che un ramo di questa disciplina è quello della storia della storiografia. La ricerca storica ha condotto nell’arco dei secoli sia ad un costante accrescimento delle conoscenze fattuali, sia ad un affinamento ed una moltiplicazione delle metodologie. Si pensi alle diverse discipline ausiliarie della storia, come la filologia, l’archeologia etc., oppure al sorgere di metodi di studio prima inesistenti, come la geografia umana, la sociologia, l’applicazione alla storia di forme d’analisi riprese dalla psicologia, dall’etologia, dall’antropologia e così via.

La storiografia sul Risorgimento, come tutte, è limitata, poiché è certo come non si sappia e non si possa sapere “tutto” su di un dato periodo storico. Sarebbe impossibile conoscere “tutto” anche soltanto della vita di un singolo uomo, perché richiederebbe né più né meno di una divina onniscienza.  Inoltre si hanno mutamenti nell’interpretazione, nel paradigma e nella metodologia, che portano ad un loro affinamento, ma che comportano anche delle cesure ed abbandoni. Il revisionismo, come certi mostri della mitologia che si celano nei luoghi oscuri o nei cimiteri, s’annida proprio negli inevitabili vuoti di conoscenza e nelle teorie abbandonate. Laddove rimangono spazi bianchi da riempire, i revisionisti arrivano non con la ricerca, ma con l’invenzione, come nel Medioevo sulle regioni sconosciute delle mappe geografiche si dipingevano esseri antropomorfi o zoomorfi immaginari. Oppure sono riesumate vecchie ipotesi, ormai superate ed abbandonate da tempo. Un esempio è la ripresa della teoria del “colonialismo interno”, secondo cui il nord avrebbe sfruttato il sud. Nonostante sia stata ripudiata da decenni dagli storici, essa viene ripescata dai revisionisti che citano fiduciosamente testi vecchi magari più di un secolo, trascurando il posteriore corso della storiografia che ha approfondito la questione.

Certamente vi sono alcuni aspetti del Risorgimento che meriterebbero un approfondimento.

In primo luogo, la storia su questo periodo è sorta con grande attenzione per gli aspetti politici e militari evenemenziali, mentre rimane a tutt’oggi un lavoro immenso da realizzare per le componenti culturali e sociali. Beninteso, vi sono molti e validi studi in proposito, ma si tratta di un terreno vasto ed ancora in buona misura inesplorato. Contrariamente a quanto si è creduto a lungo, la partecipazione popolare al processo di unificazione è stata ampia: il Risorgimento non è stato una faccenda soltanto di una ristretta minoranza d’estrazione nobile o borghese. Le figure apicali, come Mazzini, Garibaldi, Cavour etc., sono assai studiate e lo sono pure anche personaggi importanti anche se chiamati “minori” della foltissima schiera di politici, militari, intellettuali di secondo livello. Resta però scarsamente nota la storia della gran massa di coloro che parteciparono, in un modo od in un altro, ad una dinamica storica protrattasi per molti decenni.

In secondo luogo, resta da approfondire il retroterra storico del Risorgimento ottocentesco, almeno a partire dalle sue premesse settecentesche. Il grande Gioacchino Volpe nel suo capolavoro Italia moderna aveva prodotto una sintesi monumentale, ma la sua lezione magistrale è stata successivamente poco seguita, non perché se ne disconoscesse l’importanza e la validità, ma per la complessità e difficoltà di seguire le sue orme. Pure, un’investigazione più profonda sulla continuità nell’aspirazione ad una Italia unificata o meglio riunificata, perché già lo era stata con Roma antica, è indispensabile e bisognerebbe partire come minimo dal secolo XVIII, anche se si potrebbe risalire sino all’Alto Medioevo.

In terzo luogo, pesano ancora, seppure meno che in passato, i guasti provocati dall’adozione nella storiografia di canoni ideologici e politicizzati, dovuti anzitutto alla stagione dell’egemonia marxista nelle cattedre di storia contemporanea. Ad esempio, talora capita di leggere libri in cui si presenta il brigantaggio come una forma di lotta di classe o sollevazione contadina, nonostante la demolizione sistematica che è stata compiuta nella ricerca storica di questa vecchia, anacronistica ipotesi, che era stata riconosciuta quale sostanzialmente erronea persino dai suoi principali fautori come Hobsbawm e Molfese. Altro discutibile retaggio, in parte ancora perdurante sebbene molto contestato, è il ruolo determinante attribuito nella genesi del Risorgimento alla rivoluzione francese, che misconosce la peculiarità ed originalità del processo italiano di unificazione, che aveva le sue radici nella storia e cultura italiane ed in un periodo molto, molto anteriore ai sommovimenti repubblicani di Francia. L’invasione della penisola da parte delle armate rivoluzionarie e gli anni dell’occupazione francese furono soltanto un segmento in un lento movimento che era iniziato assai prima e che era destinato a perdurare almeno sino alla prima guerra mondiale, di fatto la IV guerra d’indipendenza nazionale italiana.

 

Che cosa ha significato storicamente il Risorgimento per l’Italia? L’unificazione è stato un fenomeno positivo?

L’importanza del Risorgimento italiano è stata immensa, ma non soltanto per l’Italia, bensì per il mondo, ciò che dovrebbe rispondere alle critiche fantasiose dei sedicenti revisionisti e chiarire perché sia tanto complessa la storiografia sul periodo. Il periodo storico chiamato in italiano “Risorgimento”, ossia la fase che ha condotto alla riunificazione politica dell’intera Italia sotto un unico stato, dopo la lunga epoca di frantumazione seguita alla caduta di Roma, è potuto divenire per interi popoli, europei, africani, americani, asiatici, il paradigma stesso del riscatto nazionale. La riconquista dell’unità d’Italia (concetto che in italiano viene scritto con la maiuscola, indicando l’Unità per antonomasia nella storia nazionale), ha ottenuto una fama, un’ammirazione ed un consenso che hanno abbracciato buona parte del mondo, coinvolgendo paesi in Europa, Asia, Africa, America.

Il maggior condottiero del Risorgimento, Giuseppe Garibaldi, è soprannominato l’Eroe dei Due Mondi in riferimento alle sue imprese guerresche in Sudamerica ed in Europa. Egli potrebbe però essere definito “Eroe del Mondo”, perché era ed è conosciuto ed altamente stimato nelle più diverse parti del globo. Egli fu per molto tempo il personaggio più noto ed amato al mondo. L’immensa popolarità di Garibaldi, davvero universale, è paragonabile soltanto all’altrettanto incalcolabile diffusione del pensiero di Giuseppe Mazzini. Questo pensatore politico è stato per i concetti di patria e di nazione ciò che ha rappresentato Karl Marx per quelli di classe e socialismo. Il pensiero mazziniano si diffuse in tutta Europa prima, in tutto il mondo poi. Anche se sarebbe un’opera improba per le dimensioni e la vastità dell’argomento, sarebbe da compiersi una ricerca sull’importanza del pensiero di questo intellettuale, soprannominato l’Apostolo laico, nelle dinamiche della decolonizzazione avvenuta nel Novecento e sui processi di nation building che hanno interessato i popoli più differenti. Le figure, le vicende e le idee del Risorgimento italiano sono state prese a modello nei paesi più differenti: in Serbia, in Ungheria, in Polonia, in Grecia, in Romania, in Russia ma anche in India, in Cina, in Giappone, nel Vietnam, in Siria, in Africa, insomma in buona parte del mondo.

Il Risorgimento infatti ha coinvolto una nazione che è fra quelle che hanno dato i maggiori contributi alla civiltà mondiale ed ha portato al tempo stesso alla sua indipendenza, unificazione e modernizzazione. Limitandosi a dati quantitativi, oggettivamente misurabili, il mezzo secolo posteriore all’unificazione ha condotto ad un rapido sviluppo economico in tutta Italia (non solo al nord) ed ad un miglioramento delle condizioni di vita (più intenso al sud che al nord) come salute, alimentazione, istruzione. Un paese che era sino a pochi anni prima in condizione di vassallaggio dinanzi a stati occupanti stranieri era divenuto una potenza fra le principali al mondo. Il successo dell’unificazione si palesa anche dal forte sentimento patriottico esistente da quel momento sino alla seconda guerra mondiale. L’Unità è stata un grande successo da ogni punto di vista, politico, economico, sociale. I problemi dell’Italia attuale non hanno origini nella storia ottocentesche, ma in quella molto più recente.

 

Quale fu l’effettivo ruolo dei Savoia nel processo risorgimentale?

Il Risorgimento, come ogni fenomeno storico, è stato collettivo e plurale, quindi sarebbe irriducibile riportarlo soltanto a casa Savoia. Tuttavia, è indubbio che questa famiglia reale abbia avuto un ruolo determinante nel raggiungimento dell’Unità.

Uno storico della rivoluzione industriale, David Landes, ha affermato che la storia si fa anche con i “se”, ossia avanzando ipotesi su ciò che sarebbe potuto accadere. Questo aiuta a meglio comprendere quanto è realmente accaduto. Con tutte le cautele del caso, ci si può chiedere che cosa sarebbe avvenuto senza il diretto e totale sostegno di re Carlo Alberto, di re Vittorio Emanuele II poi, alla causa nazionale.

È davvero difficile pensare che si sarebbe raggiunta l’unificazione senza il ruolo di motore di uno stato, il regno di Sardegna, poiché l’esperienza pregressa dimostrava che le insurrezioni ed i moti, da soli, non avevano forza sufficiente per affrontare la duplice minaccia della reazione dei governi locali e dell’intervento dell’Austria. Mazzini ha avuto un ruolo incalcolabile nella diffusione dell’ideale nazionale, ma il suo progetto politico di una repubblica trovava consenso minoritario dell’Italia ottocentesca, che era a schiacciante prevalenza monarchica.

Senza i Savoia, l’aspirazione ad una riunificazione dell’Italia avrebbe trovato due ostacoli difficilmente superabili: l’assenza di uno stato che la appoggiasse e guidasse; la debolezza politica del repubblicanesimo. Nessuno altro governo italiano, a parte quello del regno di Sardegna, si proponeva la realizzazione di uno stato unitario o federale.

Comunque, a prescindere dall’ipotesi sul what if, ciò che è accaduto non lascia dubbi. Re Vittorio Emanuele II optando consapevolmente per il mantenimento della costituzione paterna e per la causa nazionale, condusse il suo stato ad una lotta durissima ed altamente pericolosa (si pensi al divario delle dimensioni fra l’impero d’Austria ed il regno di Sardegna, oppure al peso politico del papato …) al fine d’unificare l’Italia. Questo sovrano fu assai popolare, anche nel Meridione come ricorda il recentissimo saggio del prof. Carmine Pinto. Egli rientra certamente fra i principali protagonisti dell’era, accanto a Cavour, Garibaldi e Mazzini.

 

 

 

historiaregni

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5 pensieri riguardo “Risorgimento e revisionismo. Intervista a Marco Vigna

  • 18 Dicembre 2020 in 19:29
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    Davvero molto , molto interessante

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  • 1 Gennaio 2023 in 1:55
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    Premetto: sono un ‘prof’ 54enne di lingue. Per mio interesse sto mettendo mano alla storia d’Italia, consultando svariate risorse. Sono giunto qui durante la verifica delle letture ‘revisioniste’ in cui sono incappato. Purtroppo non ho tempo di approfondire e cerco contributi che compendino la mia impossibilità di studiare approfonditamente una questione che non mi è famigliare.
    Ora, mi sorgono spontanee alcune domande: a) l’intervistato non è uno storico, giusto? Senza minimamente discuterne la competenza, sulla base di quale autorevolezza scientifica o non-accademica, si può etichettare come “neoborbonico” tutto ciò che mette in discussione l’attuale stato di conoscenze del fenomeno storico in esame?
    b) ho una cultura storica ‘media’, e apprezzo il postulato del relativismo storiografico qui enunciato, ma da ‘lettore’ e ‘cittadino’ non ho bisogno di essere convinto da nessuno del fatto che la storiografia contemporanea sia quanto di più mendace, cieco e a-scientifico esista nel panorama della cultura (occidentale) – un esempio su tutti che per altro conosco approfonditamente: il genocidio dei nativi americani (tutti) come inevitabile e ‘naturale correlativo oggettivo’ della colonizzazione imperialista europea delle Americhe, dal 1492 al 1900; eppure la storiografia non ha certo dato preminenza allo studio di questo fenomeno parallelamemnte alle ricerche d’archivio sulla storia americana (e tanto meno lo si insegna tra i banchi). Senza far morale o politica, non è possibile che i ‘neoborbonici’ invece sollevino questioni e dubbi indispensabili, mettendo il dito nella piaga del pressapochismo culturale connaturato all’accademia? Mi si perdoni, ma al fatto che mille idealisti ‘scalzacani’ ribaltino un regno piuttosto florido non ho mai creduto e non crederò mai. Infatti, ad esempio, è data per certa la British Legion o “Garibaldi Excursionists”, ca. 800 ‘volontari’ giunti dalla Gran Bretagna (https://www.bishopsgate.org.uk/archives/our-archives-online/muster-roll-of-the-british-legion-or-garibaldi-excursionists-1860-1; https://www.jstor.org/stable/24532049)
    c) Io conosco abbastanza bene la storia britannica e statunitense, e quando leggo di ‘Excursionists’ oppure lettere come questa https://www.tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00253359.1976.10658973?journalCode=rmir20, perdo la fiducia nel 95% della storiografia e della scientificità accademica, per la banale ragione che certe cose neanche vengono investigate in virtù di quella che oggi più o meno appropriatamente si chiama ‘cancel culture’. Ora, scrive il testimone oculare a Mussolini, “girava voce che in Sicilia …” quindi due vascelli sono partiti da Malta . . . oppure: Garibaldi a Londra ringrazia esplicitamente il Regno Unito per l’aiuto. Le carte ci sono . . . perché Garibaldi è andato a Londra (al di là di quello che là ha poi detto)? Volete davvero che beva il fatto che due vascelli pieni di soldati fossero giunti per restare in rada fuori da Palermo? Volete che beva che erano soltanto 800 gli ‘escursionisti’ britannici e che sia del tutto ovvio che solo gli Inglesi, non i Francesi o i Tedeschi, avvertissero questo desiderio di andare a crepare per l’ideale patrio italiano? Tra l’altro in un’epoca in cui le comunicazioni erano celeri, agevoli . . . Ma per cortesia. E’ ovvio che si tratta di interventi militari di un governo, chiaramente quello interessato, mascherati da tutt’altro.
    Si trovano fior di carte tra l’altro sul rapporto politico, economico e militare tra Impero Britannico e Regno delle Due Sicilie: e lo storico pretende che io, nelle schermaglie tra due potenze di quel calibro, a cui si aggiunge il fattore Francia sul controllo del Mediterraneo proprio negli anni in cui si apre il canale di Suez, abbocchi alla storia romantica di un eroe spavaldo? Aiuto . . .

    Nella narrazione ‘neoborbonica’ ho notato, e non gradisco, l’onnipresente tono di screditamento aprioristico della storiografia ufficiale; ma francamente è lo stesso che tiene quest’ultima nei confronti della critica/contestazione fatta al di fuori delle ‘gabbie’ accademiche. Queste ormai tutt’altro sono che crogioli di sapere, quanto piuttosto celle di monaci che decidono a cosa prestare attenzione dall’alto del loro (presunto) diritto esclusivo di indagine. Sull’unificazione d’Italia, ahimé, la storiografia ‘scientifica’ fa acqua da tutte le parti, offrendo interpretazioni che trovano credito presso gli sprovveduti; dalla parte ‘neoborbonica’ si costruiscono probabilmente scenari troppo frettolosamente, adducendo prove di cui è legittimo esigerne la verifica, ma di cui dovrebbe occuparsi uno storico serio, perché di fonti e documenti ce ne sono – e altrettante domande aperte.
    Gli scienziati d’accademia continueranno a giocare al Piccolo Storico, o prima o poi si decideranno a dirci chi e come ha tirato le fila di questa bella storiella? I Savoia avevano le casse vuote; i Borboni non erano gli scapestrati che ci vogliono far credere. E tanto Napoleone III quanto Vittoria non stavano certo a guardare dal balcone chi si aggiudicava senza loro benestare quanto di più strategico e ricco vi fosse nel Mediterraneo. Soprattutto l’Impero Britannico, superpotenza navale dell’epoca.

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  • 12 Gennaio 2023 in 22:14
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    Il professor Davide è libero di credere quello che vuole. Ma il suo “giudizio” sulla storiografia contemporanea è chiaramente un “pregiudizio” sulla cui base ritiene di poter valutare l’intera ricerca storica italiana sul processo risorgimentale (ricerca i cui esiti coincidono peraltro con quelli di storici di una molteplicità di nazionalità, scuole, culture: naturalmente per il professor Davide tutti mendaci etc.). D’altronde la sua valutazione sugli avvenimenti del 1860 come il risultato dell’azione di «mille idealisti “scalzacani”» è la prova evidente che le sue conoscenze su quei fatti sono – diciamo – piuttosto “limitate”. Gli sfugge, ad esempio, la banale constatazione che la British Legion citata nell’articolo da lui richiamato è detta essere sbarcata a Napoli il 15 ottobre 1860, addirittura dopo la battaglia del Volturno combattuta da circa 24.000 uomini dall’Esercito Meridionale contro un numero più o meno pari di combattenti delle truppe borboniche. Quanto ai “due vascelli inglesi pieni di soldati” che sarebbero “rimasti in rada fuori da Palermo” da lui scoperti grazie alla lettera di un corrispondente di Mussolini, il professor Davide ignora evidentemente che sulle ragioni e sugli effetti della presenza di quelle due navi, che non erano “piene di soldati”, esistono un’ampia documentazione coeva e una ricca bibliografia di storici italiani, inglesi, statunitensi etc. D’altronde lo stesso autore della lettera in questione riferisce che l’Argus e l’Intrepid avevano, come è noto, il compito di proteggere “lives and property” dei sudditi britannici residenti “in Marsala” che non è esattamente la “rada di Palermo”. Dunque ciò che per il professor Davide è “ovvio” altro non è se non il frutto, appunto, del suo “pregiudizio”. A fare “acqua da tutte le parti” non è insomma la storiografia scientifica ma la sua ricostruzione nella quale sembra che il professor Davide si diverta a giocare al “Piccolo Storico” senza avere molta dimestichezza con la pratica storiografica. P.S. 1. Marco Vigna è proprio uno storico, con dottorato di ricerca conseguito presso l’Università di Pisa. 2. Che la storiografia contemporanea non si sia occupato del genocidio dei nativi del continente americano è un’affermazione del tutto infondata. Per fare due soli esempi, «Il rovescio della conquista» di Miguel Leon-Portilla apparve da Adelphi nel 1974 ed Einaudi pubblicò nel 1977 (due generazioni fa) «La visione dei vinti» di Nathan Wachtel. Bastava già allora consultarne la bibliografia per chiarirsi le idee.

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  • 5 Settembre 2023 in 14:50
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    Eccome se sono ignorante; ma lo avevo premesso . . . ahimé Marinelli, come tutti i miei colleghi di storia interpellati al riguardo, laureatisi in Storia negli ultimi trent’anni nelle università italiane, nonché tutti i miei ex-studenti ora iscritti Storia nelle università italiane, totalmente all’oscuro di tutto, che domani finiranno a insegnare la vulgata “classica” dell’impresa dei mille nelle scuole. E’ facile dire: leggiti la bibliografia . . . un po’ troppo facile, perché così sorvoliamo su due fattori imprescindibili.

    1. Problema QUANTITATIVO. Da circa un secolo a questa parte la ricerca è, passami per favore il modo di dire, “mainstream”, ovvero organica nelle finalità, negli esiti e nei contenuti alla perpetuazione della Favola dei Mille. In oltre un secolo quanti saranno gli studi “neoborbonici”? Sono tanti e così non è? Mi sbaglio? Ottimo! Benedetta la mia ignoranza, imparo qualcosa di nuovo! Benvenute le tue bacchettate!
    Non conosco le bibliografie a memoria (evito di farlo avendo letto Borges) ma temo che gli studi non “mainstream” siano una minoranza, perché quando si sostiene di fare Storia esimendosi di chiamare le cose col loro nome, nella fattispecie non parlando di una antesignana GUERRA PER PROCURA coloniale, si deve mascherare la realtà (non storica, semplicemente la REALTA’) con etichette di maniera (neoborbonico) che altro non servono che a distanziarsi da ciò che è opportuno dire o non dire, ricercare o non ricercare, approfondire o non approfondire, saper7voler trovare o non saper/voler trovare.
    Ben vengano comunque i riferimenti – un grazie sincero. Quando andrò in pensione vedrò di colmare le chiare lacune.

    Problema di (VIZIO DEL) METODO. Qualsiasi cosa si cerchi, dice la Fisica, la ricerca è condizionata dalle sue stesse premesse. Il misuratore interferisce con la misura. La misura influisce sul fenomeno misurato. Figuriamoci un ricercatore con la sua materia d’indagine, uno studioso con la sua ricerca.
    Ora, se ci si conoscono le carte Hansdard, se economisti e storici mostrano come il Regno delle Due Sicilie fosse uno dei più ricchi e floridi d’Europa, se la posizione strategica discriminante per chiunque ambisse a controllare il Mediterraneo sia nota a chiunque, fare 1+1 significa giocare al Piccolo Storico? No. Significa misurare la temperatura di un “liquido bollente in una pentola”, e non genericamente la “temperatura di un liquido”. Significa partire da un contesto cristallino che suggerisce all’interno di quali dinamiche e quadro geopolitico sia avvenuta la vicenda in oggetto – fermo restando il dovere di ricercare e investigare in tutte le direzioni, e restando aperti a risultanze imprevedibili. E questo contesto storico si chiama così: GUERRA COLONIALE BRITANNICA PER PROCURA CONTRO IL REGNO DELLE DUE SICILIE PER L’EGEMONIA SUL MEDITERRANEO IN CONCOMITANZA CON L’APERTURA DEL CANALE DI SUEZ DA NON LASCIARE IN MANO ALLA FRANCIA.

    Vogliamo giustificare con pretese di scientificità e competenza quella che invece rischiano di trasformarsi in esercizio retorico condizionato dalla carriera dentro a torri d’avorio (da cui non si viene a sapere neanche ciò che di buono viene prodotto al proprio interno)?
    Bene, allora tenetevi pure le vostre ricerche, le vostre disamine e il vostro sapere: la storia grazie a dio non la fanno i libri degli accademici, ma gli esseri umani, e non mi serve la ricerca SCIENTIFICISSIMA di Tizio Caio Sempronio – ferma restando la sua maggiore competenza, ci mancherebbe – se costui a monte va a cercare la pagliuzza nell’occhio altrui senza accorgersi della trave nel proprio. E la trave è quella in maiuscolo al paragrafo precedente.
    Uno stato ha deciso di ribaltarne un altro. Tutto qui. Che partano da qui gli storici. Il resto è fuffa; magari storiograficamente ineccepibile, ma fuffa.
    Non sono scientificamente approvabile? Sempre meglio che contar fòle …

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  • 6 Settembre 2023 in 22:26
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    L’intervento del collega Davide conferma – e me ne rincresce – quanto notavo nel mio primo intervento. All’origine delle sue affermazioni vi è un chiaro “pregiudizio” dal quale discende poi tutta la sua argomentazione. Per lui infatti la ricostruzione che storici di diversa formazione e orientamento hanno prodotto della rivoluzione siciliana del 1860, nella quale si inserisce poi la spedizione garibaldina, è la “Favola dei Mille” che si risolve in una “guerra per procura” come ci grida con enfasi: che tale è appunto nei racconti del neoborbonismo, che cancella dalla scena proprio la Sicilia con tutta la sua storia. Il professor Davide si stupisce perché la interpretazione non “mainstream” – termine che io non uso, poiché serve a qualificare polemicamente una posizione storiografica nel tentativo di sminuirla con un trucco lessicale – è quantitativamente inferiore ad altre? Io non me ne stupisco perché per parlare di “favola” bisogna ignorare le fonti coeve, quelle borboniche in particolare, e gli storici questo non possono proprio permetterselo se non vogliono, appunto, raccontare “favole”. Quanto alla scoperta che gli eventi italiani vadano inquadrati nel contesto internazionale, posso rassicurare il collega Davide: già gli attori principali della vicenda, dal Cavour a Francesco II per essere chiari, erano consapevoli dei condizionamenti e delle implicazioni internazionali delle loro scelte visto che si trattava di inserirsi nel modo più opportuno in una lotta per l’egemonia nel Mediterraneo che durava da secoli. Da qui a porre il postulato sul “ribaltamento” sostenuto dal collega ce ne corre.
    Quanto al (vizio del) metodo, me ne spiace per Davide, ma l’esame delle carte Hansard – “Hansdard” suppongo sia un errore di battitura – e gli studi di economisti e storici – qualcosa credo di saperne, visto che di storia dell’economia mi occupo da qualche decennio – smentiscono che “il Regno delle Due Sicilie fosse uno dei più ricchi e floridi d’Europa”, affermazione che è del tutto destituita di fondamento a meno che non si voglia dar credito alla ridicola leggenda del regno borbonico come “potenza industriale” riconosciuta come tale all’Esposizione di Parigi del 1855. Le Due Sicilie erano un paese agricolo, con un’agricoltura lontanissima dalla meccanizzazione, un commercio estero poverissimo e poche “isole” con un inizio di industrializzazione in gran parte create da operatori stranieri: svizzeri nel settore tessile, inglesi nel settore enologico, francesi nell’industria della carta. Il resto, caro collega, è proprio fuffa: in buona fede certamente, ma è solo fuffa, che non perde la propria natura per il fatto di essere scritta in maiuscolo. Quanto alla storia, la fanno certo gli esseri umani ma a scriverla è bene che siano gli storici, visto che per farlo occorre una competenza specifica, come per l’insegnamento dell’inglese che è certo parlato dagli esseri umani ma non credo possa essere affidato efficacemente a chi non ha speso il suo tempo a impararlo e a studiare come insegnarlo. Cordialità.

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