Storia de Cristianesimo: Bologna e la traslazione del corpo di San Domenico

Il corpo di san Domenico, sepolto nel coro del Convento di San Niccolò delle Vigne a Bologna. Più tardi, il 24 maggio 1233, fu esumato e trasferito dal beato Giordano di Sassonia in un sarcofago di marmo. Il racconto della traslazione del corpo del santo che segue, è tratto dall’opera di Henri Dominique Lacordaire, Vita di san Domenico.


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Erano passati dodici anni dopo la morte di San Domenico, e Dio in questo tempo avea la santità del suo servo fatta manifesta con gran numero di miracoli operati alla tomba di lui, o concessi alla invocazione del suo nome. Vedevasi malati recarsi ognora alla sepolcrale sua pietra, starvi il giorno e la notte, e partirsene poi rendendogli grazia della guarigione ottenuta. Vedevasi immagini appese alle vicine mura in memoria dei ricevuti beneficj: e per volger di tempo i segni della venerazione popolare non si smentivano. Ma una profonda nube faceva ombra agli occhi dei Padri, i quali, mentreché il popolo esaltava il loro fondatore, non che avessero cura, come a figliuoli si conviene, della sua memoria, ma e’ sembravano ingegnarsi di oscurarne lo splendore. Imperocchè non solamente lasciavano senza ornamenti il di lui sepolcro; ma per tema di non essere accusati di far materia di lucro quel culto ond’ era popolarmente onorato, staccavano dalle pareti le immagini che vi fossero state affisse. Che se alcuni fra loro di questi procedimenti si offéndevano, non si ardivano peraltro a combatterli con libera opposizione. Avvenne ancora, che, il numero dei frati sempre crescendo, necessitasse distruggere la vecchia Chiesa di San Niccolò per fabbricarne una nuova, e che la tomba del Santo Patriarca, lasciata allo scoperto, restasse esposta alla pioggia e a tutte le ingiurie delle stagioni. Questo spettacolo toccò il cuore di molti Padri; i quali deliberarono fra di loro della maniera di trasportare quelle preziose reliquie in un sepolcro più convenevole, e non credevano poterlo fare senza l’autorità del sommo pontefice. «Era dritto che si apparteneva a’figliuoli, dice il Beato Giordano di Sassonia, dar sepoltura al padre loro; ma Dio permetteva che a’ compiere questo pietoso ufficio e’ cercassero 1’ appoggio di un personaggio troppo più grande di loro, affinché la traslazione del glorioso Domenico acquistasse un carattere di canonicità» I frati adunque prepararono un nuovo sepolcro, più degno del padre loro, e parecchi di essi andarono deputati al sommo pontefice per consultarlo. Sedeva allora sulla cattedra di San Pietro il vecchio Ugolino Conti sotto il nome di Gregorio IX. Il quale ricevette con severo contegno i Padri rimproverandoli di avere si lungamente trascurato l’onore dovuto al loro patriarca. «Io ho conosciuto, egli aggiunse, quest’uomo apostolico, e non dubito che non sia partecipe in cielo della gloria dei Santi Apostoli». Avrebbe anche voluto accrescere splendore con la maestà della sua persona a quella traslazione: ma ritenuto dai doveri della sua carica scrisse all’arcivescovo di Ravenna, che si portasse a Bologna coi suoi suffraganei per assistere alla ceremonia.

Era la Pentecoste dell’anno 1233. Il capitolo generale dell’Ordine celebrava in Bologna una solenne assemblea sotto la presidenza di Giordano di Sassonia, immediato successore di Domenico nel generalato. Vedevi nella città l’arcivescovo di Ravenna, obbediente agli ordini del papa, e i vescovi di Bologna, di Brescia, di Modena, e di Tournay. Più di trecento frati vi erano da ogni parte concorsi. E moltissimi signori ed onorevoli cittadini delle vicine città si facevano, calca nei pubblici alloggi. L’ aspettazione del popolo era grande, «Ma intanto, dice il Beato Giordano di Sassonia, i Padri sono in preda all’ angoscia. Pregano, impallidiscono, tremano: i quali hanno paura che il corpo di San Domenico, per lungo tempo esposto alla pioggia ed al caldo in una vile sepoltura, non apparisca roso dai vermi, e non esali un odore che diminuisca il concetto della di lui santità».

Da questo pensiero tormentoso stimolati, divisavano di aprire segretamente la tomba del Santo; ma Dio non permise che ciò si facesse. Perché o fosse che se ne avesse qualche sospetto, o che si volesse meglio certificare l’autenticità delle reliquie, la potestà di Bologna fece guardare notte e giorno il sepolcro da cavalieri armati. Nondimeno per potere con più libertà fare la ricognizione del corpo, e per evitare in quel primo momento la confusione del popolo immenso che inondava Bologna, fu stabilito che l’apertura della tomba sarebbe fatta di notte. Adunque il 2h di maggio la notte dopo il di della Pentecoste, avanti l’aurora, l’arcivescovo di Ravenna e gli altri vescovi, il generale dell’Ordine coi definitori del capitolo, il potestà di Bologna, i principali signori e cittadini, cosi di Bologna stessa, come delle città vicine, si radunarono al chiarore di fiaccole intorno all’ umile pietra che da dodici anni copriva i mortali avanzi di San Domenico. Alla presenza di tutti, padre Stefano, priore della provincia di Lombardia, e il padre Rodolfo si misero a levare il cemento che legava la pietra al suolo. Incontrarono nella durezza sua una gran resistenza, sicchè quantunque vi fosse adoperato il ferro, appena ne andò disciolto. Fu posto da parte, furono visitate le mura esterne della tomba, e il padre Rodolfo con un martello di ferro ne danneggiò la struttura: dopo di che fu alzata col mezzo di picconi, ed a stento, la pietra superiore del monumento. Mentreché venia sollevata, un profumo d’ineffabil dolcezza dal mezzo aperto sepolcro usci fuori; un odore che non l’area risentire a persona ciò che avesse prima sentito, e che passava ogni immaginazione. L’arcivescovo, i vescovi, e tutti quelli che eran presenti, pieni di stupore e di gioia, caddero in ginocchio e piangendo e lodando lddio. Si fini di levar la pietra, che lasciò vedere in fondo alla tomba la cassa di legno in cui erano le reliquie del Santo. Nella tavola superiore era una piccola fessitura, dalla quale largamente esalava l’odore che avea fatto in tutti maravigliosa impressione, e che la fece anche più penetrante quando la cassa fu tratta fuori della tomba. Tutta la gente inchinossi a venerare questo prezioso legno: vi caddero sopra onde di lacrime: infiniti vi furono i baci. Finalmente, cavati i chiodi, fu aperta; e ciò che avanzava di San Domenico, apparve agli occhi de’ suoi frati e degli amici suoi. Non vi si trovò che le ossa; ma ossa piene di gloria e di vita pel celeste profumo che diffondevano. Solamente iddio sa la gioia che allora sovrabbondò in tutti i cuori: nessun pennello potrebbe dipingere quella profumata notte, quel silenzio animato, que’ vescovi, que’ cavalieri, que’ frati, tutte quelle facce brillanti di lacrime e pendute sopra una cassa cercandovi al chiarore dei ceri il grande e santo uomo che dal monte di Dio li vedeva, e alla loro pietà rispondeva con quegl’invisibili amplessi che stemprano l’anima in una felicità troppo forte. Non credettero i vescovi che le loro mani fossero tanto filiali da poter toccare le ossa del Santo; ma ne lasciarono la conselezione e l’onore a’ suoi figli. Giordano di Sassonia si chinò su quelle Sacre Reliquia con rispettosa devozione, e le trasferì in una nuova cassa fatta di larice. Dice Plinio che questo legno resiste all’azione del tempo. La cassa fu chiusa con tre chiavi, una delle quali fu consegnata al potestà di Bologna, l’altra a Giordano di Sassonia, e la terza al priore provinciale di Lombardia: e poi fu portata nella cappella ove inalzavasi il monumento destinato a custodire questo deposito. Il monumento era di marmo, ma senza sculture che l’ornassero.

Fattosi giorno, i vescovi, il clero, i frati, i magistrati, i signori, recaronsi di nuovo alla Chiesa di San Niccolò, già piena di popolo, innumerabile; uomini d’ogni nazione. L’arcivescovo di Ravenna cantò la messa che era quella del martedì della Pentecoste, e per una commovente combinazione queste furono le prime parole del coro: accipite jucunditatem gloriae vestrae: anniatevi la giocondità della vostra gloria. La cassa era aperta, e spandea nella Chiesa balsamici odori che dai fumi soavi dell’incenso non veniano alterati: al canto del clero e dei religiosi mescevasi ad intervalli il suono delle trombe: brillava nelle mani del popolo una moltitudine infinità di lumi: non v’avea cuore, per ingrato che fosse, il quale non fosse aperto alla casta ebbrezza di questo trionfo della santità. Finita la ceremonia, deposero i vescovi sotto il marmo la cassa chiusa, che là in pace ed in gloria aspettasse il segno della resurrezione. Ma otto giorni dopo per le sollecite preghiere di molte onorevoli persone, che non avevano potuto assistere alla traslazione, si aprì il monumento. Giordano di Sassonia prese in mano il venerabil capo del Santo Patriarca, e l’offerse in vista a più di tre» cento frati che ebbero la consolazione di appressarvi le loro labbra, sulle quali conservarono per lungo tempo 1’ ineffabile profumo di quel bacio. Perché tuttociò, che le ossa del Santo avesse toccato, impregnavasi della virtù che divinamente era in loro. a Noi. abbiamo sentito, dice il Beato Giordano di Sassonia, questo prezioso odore, e di ciò che abbiamo veduto e sentito rendiamo agli altri testimonianza. Non potevamo saziarci di aprire i sensi nostri a quella dolce impressione, tuttoché fossimo stati lunga pezza presso il corpo di S. Domenico a respirarne il fragrante alito. Non ci cagionava ella fastidio per la durata: eccitava il cuore alla pietà, ed operava miracoli. Toccavi il corpo con la mano, con una cintura, con qualche altra cosa? L’odore in checché lo toccasse si trasfondeva».

Thierry d’Apolda osserva a questo proposito, che, anche avanti la morte del Santo, Dio lo aveva già privilegiato di questo esterno segno della purità dell’anima. Un giorno mentr’ei celebrava la messa a Bologna nell’ occasione di una festa solenne, gli si accostò uno scolare, essendo egli al l’ofiertorio, e gli baciò la mano. Imperocché questo giovine era da incontinenza grande signoreggiato, e forse ne cercava in cotal modo la guarigione. Sentì baciando la mano di San Domenico una soavità d’odore, che gli rivelò in un tratto l’onore e la gioia delle anime pure, e da quel momento in poi, per la Dio mercè, superò la forza delle sue depravate inclinazioni.

I grandi miracoli, che avevano fatta meravigliosa la traslazione del corpo di San Domenico, indussero Gregorio IX a non ritardarne più a lungo la canonizzazione.

 

 

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