Andrea Serrao e la Repubblica del 1799

Quando Andrea Serrao lasciò Roma per far ritorno nel Regno di Napoli, accettando l’invito del vescovo Felice Pau a reggere il seminario di Tropea, la sua conversione al giansenismo, frutto della frequentazione di Giovanni Bottari e Pier Francesco Foggini, era ormai avvenuta.

Tutto si era sviluppato presso l’Oratorio di San Girolamo della Carità, frequentato da Serrao ben prima che fosse consacrato sacerdote il 17 marzo del 1755. Lasciato Castel Monardo, dove era nato nel 1731, qulli romani furono anni formativi per lui. Immerso nel vivace ambiente culturale della curia romana, nel massimo splendore del pontificato lambertiniano, maturarono i suoi interessi per l’archeologia, per il giurista calabrese Gian Vincenzo Gravina, per la teologia morale e per quel mito della “Chiesa delle origini” che affascinava non solo gli ambienti giansenisti. Serrao aveva pure preso a frequentare la casa del Bottari proprio nel periodo in cui questi meritò la fama di capo del movimento giansenista.

Disinteressato però ad una carriera romana, agognò sempre il tornare nel Regno di Napoli. Nonostante suo padre avrebbe voluto che restasse a Roma, Andrea Serrao colse l’occasione che gli si presentò quando gli proposero di assumere il rettorato del seminario di Tropea. Qui affiancò un vescovo che già aveva dato prova di orientamento anticurialista: Felice de Pau. Questi, appassionato di musica e pittura, aveva avviato un programma di riforma disciplinare, morale e culturale della vita della diocesi con la fondazione di due accademie per la preparazione dei sacerdoti.

Presto sopraggiunse pure la possibilità di trasferirsi a Napoli. Andrea Serrao arrivò nella capitale quando sorse una disputa nella famiglia Serrao per l’attribuzione di un beneficio di jus patronatus vacante per la morte del titolare. Andrea Serrao aveva i requisiti necessari per ottenerne il possesso e riuscì a far valere i propri diritti. Queste rendite, unite a quelle provenienti dai fondi del suo patrimonio sacro, gli consentirono di dimorare stabilmente a Napoli. Nella capitale ritrovò pure suo fratello Elia, discepolo di Giuseppe Pasquale Cirillo, esponente dell’ala più conservatrice della cultura giuridica umanistica, che esercitava l’attività forense. Il nostro, come a Roma, si tenne sostanzialmente estraneo alla curia, grazie all’assegnazione di due cappellanie laicali, cui si aggiungevano le rendite di una terza di patronato dell’Università di Filadelfia e quelle del patrimonio costituitogli per la sua ordinazione al sacerdozio. A quanto pare Andrea Serrao evitò pure ogni rapporto col mite arcivescovo napoletano Antonino Sersale, entrando nel novero degli ecclesiastici regalisti assertori dell’autonomia della corte di Napoli nei confronti di Roma. Sebbene manchino tracce di un eventuale rapporto con Simioli, capo morale del giansenismo napoletano, Serrao ebbe un ruolo attivo in numerose polemiche. La sua successiva nomina a vescovo assurse addirittura ad occasione di braccio di ferro fra Pio VI, già impegnato nella lotta contro il giansensimo di Pietro Leopoldo, e Ferdinando IV, ormai deciso a cogliere i frutti di un’intensificata offensiva anticuriale.

Forse la frequentazione meno documentata ma più interessante che Serrao ebbe a Napoli fu quella con Genovesi. Da più parte definito il vero modellatore della personalità di Serrao, condivideva con lui l’avversione alla scolastica, le idee conciliari, l’antigesuitismo e la lotta alla manomorta (i privilegi fiscali degli enti ecclesiastici), elementi centrali dell’anticurialismo napoletano. Fu Genovesi a proporre Serrao come professore nelle nuove scuole regie del Salvatore, istituite nella sede del Collegio Massimo in seguito all’espulsione della Compagnia del Gesù. Serrao, assegnato alla cattedra di Catechismo e Teologia morale, avrebbe potuto contribuire in maniera sostanziale a sradicare l’insegnamento gesuitico. La riforma scolastica, ed in particolare il provvedimento di bando dei catechismi gesuitici, portarono all’introduzione del catechismo di Jacques Bénigne Bossuet ed il testo di teologia morale “Theologia dogmatica et moralis secundum ordinem catechismi conilii Tridentini” del domenicano Noel Alexandre, entrambi di orientamento gallicano (Bossuet, vescovo di Meaux, si occupò della redazione dei “quattro articoli” del 1682 secondo i quali il Papa non aveva autorità sul potere temporale e il re non era soggetto alla Chiesa in materia di cose civili, il Concilio aveva autorità sul Papa, le tradizionali libertà della Chiesa francese erano inviolabili ed il giudizio del Papa non era inconfutabile. Approvati dal re e divenuti legge, i quattro articoli comportarono un’aspra lotta col Pontefice che si protrasse sino a quanto Luigi XIV li lasciò praticamente decadere; Alexandre, docente alla Sorbona, venne privato della pensione ed esiliato a Chatellerault, nel 1713 fu tra gli “appellanti” alla bolla Unigenitus contro i giansenisti e si schierò apertamente contro i gesuiti nella questione dei riti cinesi). A Serrao spettò la prolusione per l’apertura della scuola regia ma le sue aspettative si scontrarono con numerosi problemi e nel 1774 si ritrovò con solo un alunno perché i suoi insegnamenti destavano malumori tra gli studenti. Affermazione forse più importante che il conseguimento della cattedra nelle scuole regie fu per Serrao la nomina a segretario della Reale Accademia. Quando nel 1777 la riforma portò all’unificazione delle cattedre dell’Università con quelle del Salvatore, l’insegnamento di Teologia morale e di Catechismo, che Serrao ricopriva da dieci anni, fu soppresso. Si ritrovò dunque immerso nel lavoro della Reale Accademia delle Scienze e Belle Arti, partecipò pure alla redazione dei suoi statuti. L’Accademia però, pur godendo del favore della corte, generosa nelle elargizioni, ebbe una vita più assistenziale che culturale, garantendo pensioni ai suoi membri senza produrre grandi risultati.

Sgradito a Roma, vezzeggiato a Napoli, Seraro trovava l’ostilità di Pio VI ed il favore di Ferdinando IV. Il re di Napoli, durante il ministero del Marchese della Sambuca, successore di Tanucci, tendeva a vivificare la polemica con la Santa Sede per conquistare piena autonomia da essa. In questo contesto, segnato tra l’altro dal terremoto in Calabria (1783) e dalla nascita della Cassa Sacra (1784) che incamerava i beni ecclesiastici con il consenso del pontefice per fronteggiare i danni sismici senza però intaccare gli equilibri proprietari e quindi deludendo le più audaci aspettative dei riformisti, la nomina di Serrao a Vescovo di Potenza aprì uno scontro diplomatico, mediato dalla Spagna di Carlo III ma sbloccato solo da una dichiarazione, richiesta dal Pontefice e sottoscritta dal Serrao, che ammorbidiva i toni del suo giansenismo. A Potenza però Serrao continuò spedito sui suoi passi e, oltre a riaprire il seminario e rifare la Cattedrale, convocò un sinodo diocesano che legittimasse il suo operato prima di Roma e soppresse i rapporti burocratici con la curia pontificia che, a suoi dire, sarebbero stati abusivamente introdotti dai pontefici. Egli ricorse alla consueta distinzione di scuola giurisdizionalista tra curia romana, causa della corruzione della dottrina, e Santa Sede, centro dell’unità ecclesiastica a cui sempre Serrao si professo di attenere. Egli rispose anche agli appelli del governo di sostenere con gli scritti una più audace politica ecclesiastica. Soprattutto la sua iniziative, coadiuvata dall’impegno del fratello, fu diretta a ricostruire Castel Monardo, distrutto dal terremoto, col nome, d’alto valore simbolico, di Filadelfia sulla base non solo di una rinnovata conoscenza geologica del suolo ma anche di idee nuove. Il beneplacito della corte arrivò con l’ammissione al patriziato della famiglia Serrao. Si era negli anni dell’abolizione della chinea in cui un fiume di scritti di stampo regalista sostenevano le ragioni di Ferdinando IV, anche quelli del Vescovo di Potenza.

Come Serrao, furono numerosi gli uomini di Chiesa che aderirono alla Repubblica Napoletana. Ricordiamo il Vescovo di Vico Equense, Michele Natale, il Vescovo di Pozzuoli, Carlo Maria Rossini, l’Arcivescovo di Taranto, Giuseppe Capecelatro, il Vescovo di Canosa, Forges Davanzati, il Vescovo di Salerno, Salvatore Spinelli, il Vescovo di Montepeloso, Michelangelo Lupoli, il Vescovo di Acerenza e Matera, Camillo Cattaneo Della Volta, il Vescovo di Muro Lucano, Gian Filippo Ferrone, il Vescovo di Lettere e Gragnano, Bernardo Della Torre, il Vescovo di Crotone, Rocco Coiro. Probabilmente ciò avvenne perché nel Settecento, protette dai monarchi, si erano ampiamente diffuse culture antigesuitiche e d’impianto riformista. In linea di massima possiamo riassumere le posizioni dei giansenisti e dei gallicani in pochi punti. Parte attiva delle polemiche che portarono alla soppressione della Compagnia di Gesù, individuata come centro propagatore di tutto ciò che mal tolleravano, essi individuarono delle presunte alterazioni intervenute nelle strutture della Chiesa rispetto a quella delle origini, con l’ampliamento dei poteri papali a danno delle Chiese locali, criticarono la proliferazione degli Ordini regolari e delle devozioni popolari come quella al Sacro Cuore denunciata come “farisaica”, condannarono la supposta tendenza da parte dei confessori a facili assoluzioni e la consuetudine della comunione frequente da parte dei fedeli. Si può ben capire quanto queste posizione fossero lontane dai fedeli cattolici del Settecento napoletano, essendolo ancora oggi. Oltretutto si noti quanto fossero cariche di un rigorismo e di un volto austero. Condividevano poi con i regalisti il principio della supremazia del monarca sul clero nell’esercizio dell’autorità giuridica e teologica che spesso celava meramente la cupidigia d’incameramento dei beni del clero, degli ordini religiosi e delle confraternite e la tassazione dei beni delle diocesi.

Perché improvvisamente si spezzò la collaborazione tra i riformatori napoletani e la corte? Furono i fatti dell’1789, la Rivoluzione Francese. I sovrani di Napoli, spaventati, si aprivano alle tesi dei filocuriali, si apprestavano ad aderire alla coalizione antifrancese, allontanavano i funzionari che da anni guidavano la polemica contro Roma, scoprivano trame e congiure , procedevano ad arresti e misure restrittive. Serrao è fuori da questi problemi, non c’è nulla che provi o lasci supporre la sua adesione al giacobinismo, tuttavia presenzia all’innalzamento dell’albero della libertà e rassicura i diocesani sulla legittimità del rivolgimento in atto. Si adattò forse alle nuove circostanze, intese assicurare la pace alla diocesi e conservare il controllo del paese. Non ci riuscì. Il suo operato accentuò le ostilità dei suoi fedeli. La mossa sbagliata fu la nomina, fatta dallo stesso Serrao, di Francesco Giacomino a capo della guardia civica in spregio al suo, presunto, orientamento antibaronale. Si trattava di un facinoroso che presto approfittò del suo ruolo perpetrando terrore e soprusi in danno dei contadini e della povera gente.

Ciò non toglie che l’omicidio di Serrao sia stato un fatto vergognoso e la ferocia col quale esso è avvenuto raccapriccia. Serrao fu ammazzato da un colpo di pistola alla testa ricevuto in casa il 24 febbraio 1799 da un gruppo di Sanfedisti che aveva fatto irruzione nella sua abitazione. Successivamente fu decapitato e la sua testa fu fissata su un’alta picca ed esposta in piazza per quattro giorni. Con lui furono uccisi il suo segretario, il rettore del Seminario ed i fratelli Siani. Anche le loro teste furono issate sulle picche e portate in corteo sin nella Piazza.

 

 

 

 

 

 

 

Autore: Angelo D’Ambra

 

Bibliografia:

E. Chiosi, Andrea Serrao : apologia e crisi del regalismo nel Settecento napoletano, Napoli 1981
D. Forges Davanzati, Giovanni Andrea Serrao : vescovo di Potenza e la lotta dello stato contro la Chiesa in Napoli nella seconda metà del settecento, Bari 1937

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