Pirro e le guerre contro Roma

I fatti di cui parliamo videro l’intervento di Pirro nella Magna Grecia in alleanza con Taranto contro Roma.

Nell’estate del 282 a.C. dieci navi romane si fermarono davanti al porto della città di Taranto. La reazione dei tarantini, già infastiditi dalla progressiva intromissione romana in Magna Grecia, fu dura: attaccarono le navi affondandone alcune e costringendo le restanti alla ritirata. Nei giorni successivi marciarono contro la città di Thurii, sita nelle vicinanze di Sibari ed alleata di Roma, e la saccheggiarono. Non appena ebbero notizia di quanto era accaduto, i romani inviarono a Taranto un’ambasceria guidata da Postumio che però fu accolta in malo modo, tra offese e sberleffi. Postumio riferì l’esito della sua ambasceria ed il senato decise l’intervento militare. I tarantini, consci di non poter affrontare a lungo l’assedio romano, cercarono aiuti in Epiro richiedendo l’intervento del re Pirro.

I tarantini si preoccuparono di garantire a Pirro le navi per il trasporto dei suoi uomini ed un esercito di supporto, ma le cose non iniziarono nel verso giusto. Una parte della città era contraria al coinvolgimento del condottiero epirota e ciò costrinse Pirro a farsi anticipare da un contingente di tremila uomini al comando del suo luogotenente, Cinea. Al successo dell’operazione fece seguito il naufragio della flotta che coinvolse lo stesso re d’Epiro, giunto a nuoto sulle coste pugliesi. Il suo esercito, dopo tali traversie, contava ventimila uomini di fanteria pesante, trentamila di cavalleria, duemila arcieri, cinquecento frombolieri ed una ventina di elefanti che così, per la prima volta, comparvero dinnanzi ai romani.

A Taranto, Pirro chiuse teatri, abolì festività e precettò i cittadini in età per combattere. A Roma non restò che cercare alleati tra le città greche di Locri e Turi. Ciò incalzò Pirro a prendere l’iniziativa prima del previsto.

Il condottiero marciò in Lucania accampandosi presso Eraclea, sul fiume Siri. I romani, guidati dal console Publio Valerio Levino, disponevano di circa ottomila uomini e forse di ventimila soldati alleati. Pirro pensò dunque di attendere rinforzi, mentre il console non aveva alcuna intenzione di farsi soverchiare da forze superiori in numero così anticipò i tempi e guadò il fiume. Pirro sfuggì al nemico arretrando poi passò al contrattacco: la sua falange tenne il centro nemico mentre egli stessi condusse alla carica la cavalleria; agli elefanti fu assegnato un ruolo difensivo, forse per scongiurare il pericolo di essere accerchiati. Qualcosa andò storto, la carica partì troppo tardi e fu respinta ma Pirro ordino alla sua falange di attaccare. Ciascun legionario romano si trovò ad affrontare con la sua spada almeno cinque lance nemice, mente, come previsto, i cavalli romani restavano paralizzati davanti alla grande mole dei pachidermi.

Pirro aveva fatto indossare il suo elmo ed il suo mantello ad un attendente così quando un legionario levò l’elmo verso l’alto pensando d’aver ammazzato il re d’Epiro, questi uscì allo scoperto, attraversò il campo a volto scoperto gridando e rivelando l’arguzia. Alla fine della giornata s’era impossessato del campo di battaglia abbandonato dai romani in ritirata, ma non aveva le forze per affondare il colpo.

Iniziò così quella serie di battaglie mai completamente vinte che contraddistinguerà la vita militare del re d’Epiro. Pirro è passato alla storia come il grande generale eternamente incapace di trarre vantaggio dalle sue vittorie ed in effetti si mostrò così, un uomo che aveva buone carte ma non sapeva come giocarle. Questa vittoria servì solo ad attrarre al suo partito sanniti, lucani e le città greche di Crotone e Locri, mentre a Reggio una rivolta della guarnigione causò il massacro dei maggiorenti che volevano passare con Pirro.

Il re d’Epiro si spinse dunque verso Roma fermandosi ad una sessantina di chilometri dalle sue mura con l’obbiettivo di intimorirne gli abitanti ed indurli a trattare. Tale strategia era senz’altro imposta dalle poche forze a sua disposizione. Al contrario, Roma poteva contare sull’alleanza dei sanniti settentrionali, di Napoli, di Capua, nonchè sugli Eturschi, preferì dunque non cedere alle lusinghe di un patteggiamento. Si verificò solo uno scambio di prigionieri, tutto qui.

Entrambe le forze in campo si prepararono in un lungo inverno per una primavera risolutiva. Quarantamila soldati romani furono affidati ai consoli Publio Sulpicio e Publio Decio Mure e, nell’aprile del 279, essi si scontrarono con gli Epiroti sulle rive dell’Ofanto, vicino Ascoli Satriano, in Puglia, zona accuratamente scelta dai consoli perchè di natura boscosa, utile ad impedire lo spiegamento della falange ed all’utilizzo agevole degli elefanti. Pirro tentò allora una nuova tattica alternando alla sua fanteria oplitica, reparti di sanniti, lucani e tarantini. La battaglia durò dall’alba al tramonto. Pirro giocò tutto sulla mobilità dei suoi reparti, caricando, arretrando e di nuovo caricando a più riprese. L’intervento degli elefanti costrinse i romani ad abbandonare anche quella che sul campo si stava rivelando un’arma devastante: trecento carri da guerra. Ferito ad un braccio, Pirro era stato ancora il vincitore, ma doveva rinunciare a portare a completamento il suo successo prendendo d’assalto il campo nemico. Troppe energie erano state spese. Era la sua seconda mezza vittoria.

Le imprese dell’epirota destarono l’interesse delle città siciliane.  Esse inviarono il condottiero a liberarle dalle minaccie cartaginesi. Il re accettò. In Sicilia la guerra durò tre anni ma Pirro non riuscì a vincere i nemici. Sull’isola le cose non andarono affatto bene. Altre tre mezze vittorie, una ribellione, la flotta distrutta dai cartaginesi, davvero un pessimo bilancio che costrinse Pirro a tornare a Taranto.

Reclutò precipitosamente quanti più uomini potè, deciso a conseguire uno scontro decisivo con Roma. Quell’anno i consoli erano Lucio Cornelio Lentulo e Manlio Curio Dentato. Al primo erano state assegnate le operazioni in Lucani, al secondo quelle nel Sannio. Avuta notizia dell’avanzata di Pirro, i due si disposero a presidiare le principali vie di accesso a Roma: Lentulo quella centrale e Dentato quella presso Maleventum. Con astuzia Pirro inviò un consistente discattamento dei suoi in Lucania contro Lentulo, mentre potè muoversi contro Dentato con ventimila fanti e tremila cavalieri. Il nemico disponeva invece di diciassettemila fanti e milleduecento cavallieri. L’attacco avvenne di notte.

Per sfruttare la superiorità numerica, Pirro puntò a raggiungere un’altura nei pressi del campo dei romani per piombarvi addosso prima che questi avessero il tempo di organizzarsi e reagire. Purtroppo, al buio, l’avanguardia dei suoi uomini si perse nei boschi e ciò ritardò l’occupazione dell’altura sino alle prime luce del sole. Curio Dentato potè notare tutto e mandare i suoi uomini a sbaragliare l’avanguardia epirota. Nacque poi uno scontro segnato positivamente per Pirro fino a quando i romani presero a bersagliare i pachidermi che finirono in confusione. Alla fine due elefanti risultarono uccisi ed otto furono consegnati ai romani. Pirro aveva perso e Maleventum diventava Benevento.

Poco dopo, il generale salpava da Taranto alla volta della Macedonia. La città pugliese continuò da sola la sua opposizione a Roma per capitolare tre anni dopo sotto l’assedio del console Papiro Cursore il Giovane.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Frediani, Le grandi battaglie di Roma antica, Roma 2011, pp. 30-47

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