La spedizione di Costante II nel Sud Italia

Scoppiata la guerra tra Perctario e Godeperto, figli del defunto re Ariperto, Godeperto aveva inviato a Benevento il duca di Torino Garipaldo per persuadere Grimoaldo a schierarsi dalla sua parte. In realtà Garipaldo aveva suggerito a Grimoaldo di approfittare della situazione per muovere alla volta di Pavia con un potente esercito e farsi re. Grimoaldo, lasciato suo figlio Romualdo alla guida del Ducato di Benevento, giunse a Pavia, uccise Godeberto e mise in fuga Perctario, proclamandosi infine re dei Longobardi. Nel 662 d.C., quindi, il grosso delle truppe longobarde della Penisola era concentrato a Pavia sotto il comando di Grimoaldo (P. Diacono, Storia dei Longobardi, IV 51). Approfittando del fatto, Costante II iniziò la sua spedizione per la riconquista dell’Italia meridionale.

L’Imperatore, dopo aver trascorso l’inverno ad Atene, nominato suo figlio maggiore Costantino governatore di Costantinopoli, salpò per la Puglia.

Attraversato lo Ionio con una flotta le cui dimensioni restano sconosciute, sbarcò a Taranto dove come prima cosa volle far visita ad un eremita che si diceva possedesse la capacità di prevedere il futuro. Lo interrogò sull’esito della spedizione e dopo una lunga notte di preghiere, l’eremita rispose: “La gente dei longobardi non può essere vinta da nessuno, perché una regina, venuta da altri paesi, ha costruito nel loro territorio una basilica al beato Giovanni Battista, e perciò lo stesso beato Giovanni intercede continuamente a favore di quel popolo. Ma verrà un tempo quando tale santuario non sarà più tenuto in onore, e allora quella gente perirà” (P. Diacono, Storia dei Longobardi, V 6).

Nonostante la predizione sfavorevole, l’imperatore volle proseguire l’impresa e serrati i ranghi dei suoi uomini avvio una rapida marcia alla conquista dei possedimenti longobardi nella regione. Ancora in Paolo Diacono leggiamo: “[…] invase i territori di Benevento e conquistò quasi tutte le città Longobarde per le quali passò. Attaccò con forza, espugnò e distrusse anche Lucera, ricca città della Puglia, e la rase al suolo. Non poté tuttavia conquistare Agerenzia, per la posizione imprendibile del luogo. Quindi con tutto il suo esercito circondò e cominciò ad assalire con violenza Benevento”.

Manca nella cronaca ogni riferimento alle dimensioni numeriche dell’esercito bizantino, solo più avanti, nella seconda fase della spedizione, si parla di ventimila uomini. Tale notizia fa pensare che le unità sbarcate a Taranto fossero molte di più, e dunque che la flotta salpata dalla Grecia fosse enorme, ma non è possibile escludere la possibilità che le truppe siano cresciute sul suolo italico con l’apporto di uomini dalle città bizantine della Calabria. In ogni caso a determinare l’esito delle battaglie non fu solo il numero dei soldati, le vittorie bizantine furono indubbiamente facilitate dalla fase travagliata che viveva in quel momento il regno longobardo: i più fidati collaboratori, i più capaci combattenti erano nel Nord Italia al seguito di Grimoaldo e l’intero ducato di Benevento era di fatto sguarnito d’ogni difesa.

Triste fu la sorte di Lucera, rasa al suolo con l’utilizzo di macchine ossidionali come forse altre città. Nella Vita Sancti Pardi si legge sulla presa di Lucera dell’uso di macchine ossidionali, di prigionieri e soprattutto della fuga del vescovo e di alcuni chierici che fondarono Lesina: “inde Luceriam adiens, acerrime dimicari iussit et diversas machínas apponi,quamdiu caperetur. Captam vera usque ad solum iussit prosterni, et ea exusta igni, omnem populum, quiprius non fugerat, in captivitatem mitti” (GEORG WAITZ, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum sæcc. VI-IX, Hannover 1878, p. 589); ed ancora: “Lucerinus autem episcopus, qui, antequam caperetur sua diocesis, latenter fugerat cum suis clericis in aliquam partem Apuliae, condidit oppidum nomine Lesina, in quo et moratus est per annos non exiguos” (G. Waitz, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum sæcc. VI-IX, Hannover 1878, p. 590). Il Chronicon Romualdi Salernitani menziona altre due città distrutte, Ortona ed Acana: “Ortonam autem atque Luceriam et Ecanam aliasque civitates invadens expugnavit, diruit et ad solum usque destruxit”. La vittoria politica più importante fu però quella di Benevento.

Grimoaldo era ancora a Pavia con le sue schiere di uomini d’arme e suo figlio, il giovane Romualdo cui era stato affidato il ducato, non poté fare altro che chiedere aiuto al padre, inviandogli un balio di nome Sesualdo con un messaggio di soccorso, e nel frattempo provare a fronteggiare l’aggressione bizantina che Costante portava avanti con “diverse macchine”, limitandosi a irrompere “nel campo dei nemici con giovani armati alla leggera”.

In una tipica situazione di assedio, gli assedianti usavano artiglierie nevrobalistiche effettuando il tiro di demolizione delle opere difensive, mentre gli assediati cercavano di causare all’attaccante le maggiori perdite possibili e di demolire le sue macchine. Il testo parla esplicitamente di “petrarie”, macchine a torsione inventate nel 215 a.C. da Archimede durante l’assedio di Siracusa, che erano costituite da un affusto quadrangolare con una trave in bilico, alle cui opposte estremità erano posizionate la sacca con i proiettili; azionate per mezzo di corde, all’atto del tiro esse si innalzavano oltre le mura ruotando su un perno per effettuare il lancio dei macigni. Secondo talune ricostruzioni sperimentali, mediante l’opera di 8-16 servienti la petraria può lanciare sassi pesanti da 3 a 12 chilogrammi sino a 40-60 metri di distanza col ritmo di un colpo al minuto (AA.VV., I caratteri originari della conquista normanna, Bari 2006, pp. 148-9).

Sulla via del ritorno, il messo inviato a Grimoaldo, fu fatto prigioniero dai bizantini che interrogandolo vennero a conoscenza dell’imminente arrivo del re longobardo con le sue folte legioni. Pronto ad abbandonare l’assedio per il timore dello scontro con un esercito che si prospettava più potente, l’imperatore “prese la decisione di far pace con Romualdo, per poter tornare a Napoli”, tuttavia operò uno stratagemma: “Ordinò poi che il balio di Sesualdo fosse condotto presso le mura, minacciandolo di morte se avesse detto qualcosa a Romualdo o ai cittadini circa l’arrivo di Grimoaldo; dicesse invece che questi non poteva venire. Egli promise di fare come gli era stato ordinato. Ma giunto presso le mura, disse che voleva vedere Romualdo. E a Romualdo, subito accorso, così parlò: “Resisti, mio signore Romualdo, sii fiducioso e non turbarti, perché tuo padre presto sarà qui per portarti aiuto. Sappi che egli questa notte si è accampato con un forte esercito vicino al fiume Sangro. Soltanto ti prego di mostrar compassione per mia moglie e per i miei figli, perché questa perfida gente non mi lascerà in vita”. Ciò detto, per ordine dell’imperatore gli fu tagliata la testa e con una macchina da guerra che chiamano petraria fu scagliata dentro la città. Romualdo ordinò che gli portassero quella testa e la baciò piangendo, e dispose che fosse tumulata in un degno sepolcro”.

Il sacrificio di Sesualdo, impedì che Benevento cadesse nelle mani bizantine, ma un’altra versione dei fatti, quella contenuta nella Vita di San Barbato, vuole che solo la conversione di Romualdo al cattolicesimo rese possibile allontanare il pericolo. Secondo la Vita Sancti Barbati, il santo avrebbe presagito la vittoria a Romualdo solo alla condizione dell’abbandono dell’arianesimo. Sarebbe dunque avvenuta in questa occasione la conversione dei beneventani che, siglato l’accordo coi bizantini, avrebbero poi in segno di riconoscenza concesso a Santo Barbato la giurisdizione del santuario garganico di San Michele e della diocesi di Siponto (Si veda M. Motesano, Vita di Barbato).

Comunque siano andate le cose, minacciato dall’arrivo di Grimoaldo, Costante II firmò la pace con Romualdo e pose fine all’assedio di Benevento.

Lasciata Benevento le truppe imperiali attraversarono il Sannio e l’Irpinia recandosi a Napoli, ma sempre continuamente aggredito dai longobardi di Capua. A Napoli, Costante II fece un ultimo tentativo per conquistare il ducato affidando ventimila uomini al comando dell’ottimata Saburro deciso ad affrontare vittoriosamente Romualdo. Nello scontro, maturato in località Forino, “…uno dell’esercito del re, di nome Amalongo, che di solito portava il vessillo del re issato sulla lancia, percosse forte con quella stessa lancia, a mani unite, un greco, lo prese dalla sella su cui cavalcava e lo sollevò per aria sopra il suo capo. Vedendo ciò, l’esercito dei Greci, preso all’improvviso da immenso terrore, si volse alla fuga, e fatto rovinosamente a pezzi, fuggendo procurò a sé morte, a Romualdo e ai Longobardi vittoria”. Ne risultò un’incredibile vittoria per i beneventani.

La vittoria di Forino fu festeggiata come uno storico trionfo a Benevento e dovette entrare nella memoria collettiva dei longobardi. La tradizione vuole che la battaglia di Forino sia stata combattuta l’8 di maggio, giorno in cui Pio V nel Cinquecento istituirò la festa dell’Apparizione di san Michele, e che i longobardi, ad imperituro ricordo, eressero nel logo dello scontro un santuario dedicati all’arcangelo. È altresì probabile che il nome stesso del monte su cui sorge il tempio, Monte Faliesi, sia stato attribuito dai longobardi stessi dopo quest’evento bellico perché richiama il germanico falisa che significa “roccia”.

Viceversa a Napoli i pochi uomini rientrati al seguito di Saburro dovettero patire il disonore. Costante II era stato sconfitto.

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

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