Sichelgaita di Salerno

Sichelgaita principessa di Salerno, assieme alla sorella Gaitelgrima, fu a tutti gli effetti l’ultima principessa longobarda. Non si sa con precisione la data della sua nascita, probabilmente il 1036 (Dorotea Memoli Apicella, Sichelgaita tra longobardi e normanni, Salerno 2009, pp. 19-20). Sua madre era Gemma di Teano e suo padre era Guaimario IV, principe di Salerno della dinastia longobarda del ducato di Spoleto.

L’XI secolo era un’epoca di transizione, come si è visto nei capitoli precedenti, ma le figure di Sichelgaita e di Guaimaro IV rappresentarono il canto del cigno della “…Langobardorum gens, quae postea in Italia feliciter regnavit” (Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di Antonio Zanella, Milano 1991, libro I, I, p. 148).

La sua grandezza è dovuta alle capacità delle quali diede dimostrazione, nonostante la giovane età dopo che, a soli 16 anni, fu proiettata nel mondo reale dall’ambiente di corte, ovattato e protetto, nel quale crebbe e dove fu educata come si conviene ad una donna del suo rango, con lo studio dei classici latini e greci oltre che delle Sacre Scritture.

Questo avvenne nel 1052, a seguito della congiura di palazzo che portò alla morte di Guaimario, assassinato grandguignolescamente dai suoi cognati; Sichelgaita sopravvisse quindi non solo a congiure di palazzo, ma anche a guerre in Italia e fuori (alle quali partecipò attivamente al fianco del marito Roberto d’Altavilla). Con le sue abilità diplomatiche favorì inoltre l’ascesa politica del Guiscardo, un Normanno quindi, ovvero uno straniero considerato rozzo e barbaro dall’aristocrazia locale, e ci riuscì garantendo anche il potere alla sua discendenza senza inimicarsi né la gens Langobardorum alla quale apparteneva, né la gens Normannorum ma, anzi, avendo l’approvazione e il supporto di entrambe. Amato di Montecassino la definisce “nobile per nascita, bella fisicamente e saggia di mente” (Amato di Montecassino, Storia dei Normanni, introduzione, traduzione e note di Giuseppe Sperduti, Cassino 1999, libro IV, XVIII, p. 197).

Quando Gisulfo II, il figlio maggiore di Guaimario, divenne regnante alla morte del padre, fu ben presto chiaro che non aveva la tempra del genitore: Amato di Monteccasino non ne aveva affatto una buona opinione, dato che in ben 22 dei 36 capitoli del libro VIII della sua Storia dei Normanni, rende partecipe il lettore delle nefandezze compiute da costui con particolari anche raccapriccianti e non lesinando giudizi inequivocabili come “ferocissimo principe di Salerno” (Ibidem, libro VIII, II, p. 341).

All’inizio i rapporti con il Guiscardo non dovevano essere poi tanto male, visto che gli chiese di intervenire per fermare le scorribande che suo fratello Guglielmo d’Altavilla compiva ai confini dei territori del principato. Roberto accettò di buon grado ma chiese in cambio la mano di Sichelgaita. C’era però un problema: il Normanno era già sposato con Alberada di Buonalbergo, una normanna di nobile famiglia (era la zia di Gerardo di Buonalbergo) che gli portò in dote 200 cavalieri, i quali aiutarono molto il Guiscardo nella sua ascesa grazie all’iniziale conquista della Calabria (Ibidem, libro III, XI, pp. 137-139) e della Puglia (Alberada di Buonalbergo in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. URL consultato il 28 aprile 2016). Da lei Roberto ebbe due figli: Emma d’Altavilla e Beomondo, che sarebbe diventato primo principe di Taranto e d’Antiochia.

Questo intralcio fu ben presto risolto poiché, appellandosi opportunisticamente alle norme canoniche vigenti, in base alle quali c’erano dei limiti al matrimonio tra consanguinei, fu facile e immediato per Roberto denunciare la nullità del matrimonio (cosa che faceva di suo figlio Boemondo un bastardo). A quel punto fu nella condizione giusta per sposare la principessa longobarda nonostante la diffidenza e la ritrosia del fratello Gisulfo, il quale cercò di tergiversare adducendo come scusa l’impossibilità di dotare adeguatamente la sorella. Il Guiscardo però non si fece problemi ed egli stesso dotò munificamente Sichelgaita, con terre e castelli in terra di Calabria (Dorotea Memoli Apicella, op. cit., p. 124).

Nel 1058 si celebrò dunque a Melfi, la capitale dei Normanni, il matrimonio tra la giovane e colta longobarda Sichelgaita e il normanno semianalfabeta Roberto, all’epoca l’uomo più potente del Sud (Guglielmo di Puglia, Le gesta di Roberto il Guiscardo, introduzione, traduzione e note di Francesco De Rosa, Cassino 2003, libro II, 436-441, p. 136).

Questo matrimonio suggellò l’unione tra l’ultimo scampolo della longobardità nel Meridione e la nuova potenza rappresentata dai Normanni, con i quali evidentemente bisognava fare i conti e magari anche un’alleanza e il matrimonio sembrava essere la strada migliore.

Certamente da quel matrimonio ne trasse vantaggio anche il Guiscardo dato che, come dice Guglielmo di Puglia, “Con questo matrimonio contratto con la grande nobiltà l’illustre nome di Roberto incominciò a diventare più prestigioso ed il suo popolo, un tempo di solito costretto alla servitù, gli rese ormai l’obbedienza in ossequio al diritto degli antenati. Infatti il popolo longobardo sapeva che l’Italia era stata sottomessa ai bisavoli e agli avi di questa donna” (Guglielmo di Puglia, Le gesta di Roberto il Guiscardo, introduzione, traduzione e note di Francesco De Rosa, Cassino 2003, libro II, 436-441, p. 136).

Ad ogni modo Sichelgaita, sia a cagione del forte carattere che della sua in un certo senso allarmante ferocia e abilità nel combattere delle quali diede prova più volte, dovette esercitare una notevole influenza sull’energico marito, che accompagnò spesso nelle sue campagne militari, come ci viene detto dalla storica bizantina Anna Comnena Porfirogenita nell’Alessiade (John Julius Norwich, I Normanni nel Sud 1016-1130, Milano 1971, p. 139).

Un tale comportamento non deve stupire più di tanto, in quanto era essa stessa titolare di vasti territori, sia per diritto ereditario che per la dote avuta dal marito, pertanto era una feudataria in tutto e per tutto con terre e uomini che dipendevano da lei e rispondevano direttamente a lei.

Inoltre era consigliata dal saggio vescovo Alfano e dal cugino Desiderio, abate di Montecassino, il quale si prodigò sempre per ristabilire relazioni cordiali tra il papatoe i Normanni, cosa che portò la principessa longobarda a far sì che il marito si dichiarasse disposto a sottomettersi all’autorità del Pontefice ponendo fine a quasi 10 anni di tensioni tra gli uomini del Nord e il papato. Questo avvenne a Melfi nel 1059, quando papa Niccolò II fu invitato dai Normanni a recarsi in Puglia perché ci potesse essere una riconciliazione.

Fu Sichelgaita ad accogliere il pontefice con tutti gli onori e fu sempre lei ad organizzare il Concilio di Melfi e a preparare gli incontri che dovevano poi far sortire il Trattato di Melfi e il successivo Concordato di Melfi a margine del Concilio. In ciò fu aiutata anche dalla buona predisposizione di Niccolò II, coadiuvato dal fedele consigliere Ildebrando di Soana, futuro papa Gregorio VII, anche lui convinto che fosse necessario allearsi con i vecchi nemici in modo da difendersi meglio dall’ingerenza imperiale sempre più pressante.

Il successo diplomatico fu completo: Roberto venne nominato duca di Puglia, di Calabria e di Sicilia in cambio del suo giuramento di fedeltà a Santa Romana Chiesa (Ferdinand Chalandon, Histoire de la domination normande en Italie et en Sicile, A. Picard, Parigi 1907. Ed. it: Storia della dominazione normanna in Italia ed in Sicilia, trad. di Alberto Tamburrini, Cassino, 2008, pp. 129-130).

Sichelgaita fece di tutto per aiutare suo fratello Gisulfo, nel drammatico frangente in cui Salerno venne assediata dal marito a cavallo tra il 1076 e il 1077, e alla fine intercedette per lui in modo che venisse liberato con una sostanziosa “buonuscita” di mille bisanti (la famosa moneta d’oro bizantina diffusissima in tutta l’area mediterranea), di modo che potesse rifugiarsi da papa Gregorio VII che lo amava come un figlio (Amato di Montecassino, op.cit., libro VIII, XXX-XXXI, pp. 377-379).

Nei poco più di 25 anni di vita coniugale diede al marito 5 femmine e 3 maschi e come si è visto fu spesso accanto a lui nelle sue campagne militari, non solo come moglie, ma finanche sul campo di battaglia come quando, tra il 1078 e il 1079, Roberto dovette sedare in Puglia la rivolta del conte Amico di Giovinazzo (una delle numerose rivolte dei riottosi e anarchici signori normanni), assieme a Goffredo di Conversano e Pietro di Trani, durante la quale Sichelgaita guidò l’assedio e la successiva conquista di Trani mentre il marito si occupava di Taranto (John Julius Norwich, op.cit., p. 241).

Altrettanto fece durante la prima spedizione contro l’Impero bizantino nel 1081 quando, nella battaglia di Durazzo, la cavalleria normannadel centro dello schieramento impattò contro un’inaspettatamente forte resistenza della guardia variaga che si oppose alla carica nemica usando la loro tipica arma, la grande asce a due mani. Questo fece sbandare i cavalieri, sicché Sichelgaita lì richiamò al proprio compito e si gettò nella mischia per dare l’esempio. Anna Comnena narra così l’episodio nell’Alessiade: “Non appena Gaita, moglie di Roberto (che cavalcava al suo fianco ed era una novella Pallade se non un’Atena), vide i soldati darsi alla fuga, li seguì con uno sguardo feroce e gridò loro nella sua lingua parole simili a quelle di Omero: « Quanto lontano fuggirete? Fermatevi e agite da uomini! » e vedendo che continuavano a fuggire, impugnando una lunga lancia li inseguì a galoppo serrato; vedendo ciò rientrarono in sé e si gettarono di nuovo nella mischia” (Guglielmo di Puglia, op. cit., libro III, 668-671, p. 180).

Essa stessa, combattendo in prima persona per dare l’esempio ai suoi uomini, venne ferita da una freccia ad una spalla e per poco non venne fatta prigioniera, ma come ci fa sapere Guglielmo di Puglia, che descrisse la battaglia nelle varie fasi, “Iddio, non volendo che fosse umiliata una donna così nobile e degna di rispetto, la salvò” (Ibidem, libro IV, 430-431, p. 206).

Fu nuovamente a fianco di suo marito due anni dopo, per difendere Gregorio VII assediato a Castel Sant’Angelo dalle truppe tedesche dell’imperatore Enrico IV, e ancora durante la seconda campagna contro l’Impero bizantino nel 1085, quando il duca Roberto morì probabilmente di febbre tifoidea durante l’assedio di Cefalonia.

Durante la sua vita Sichelgaita cercò di privilegiare il ruolo del figlio Ruggero Borsa, rispetto al primogenito Beomondo, che Roberto aveva avuto dal precedente matrimonio e che assomigliava molto al padre in quanto a coraggio e temperamento. Dopo la morte del Guiscardo, per evitare reazioni inconsulte da parte dell’esautorato Beomondo (perché già nel 1081, prima di partire per la spedizione in Oriente, il duca normanno haeredem statuit dietro insistenza della moglie), Sichelgaita non proclamò solennemente la successione del figlio Ruggero, ma si associò provvisoriamente al suo governo del Ducato, in base ad un antico costume longobardo e dando luogo a quello che gli storici avrebbero definito “bicefalismo ducale” (Michele Scozia, Sichelgaita. Signora del Mezzogiorno, Napoli 1994, pp. 291-292). Questa soluzione ebbe il vantaggio di soddisfare sia i Longobardi che i Normanni, che si vedevano in tal modo rappresentati entrambi. A Beomondo vennero riconosciute alcune terre in Puglia, compresa Taranto e tutte quelle che avrebbe conquistato al di fuori del Ducato, cosa che lo spinse a partire per la Terra Santa dove divenne uno dei più famosi e importanti crociati, arrivando a rivestire il titolo di Principe di Antiochia.

Negli ultimi anni della sua vita, una volta lasciato suo figlio al governo del Ducato, si dedicò allo studio medico ed erboristico presso la prima e più importante istituzione medica in Europa nel Medioevo: la Schola Salerni.

Morì infine nel 1090, cinque anni dopo suo marito, e venne sepolta a Montecassino (John Julius Norwich, op.cit., p. 278), nell’abbazia che amava tanto e che suo cugino Desiderio, poi diventato papa Vittore III, diresse per tanti anni. Con lei si spense l’ultima grande rappresentante del popolo longobardo ma ciò che fece la consegnò alla storia e alla leggenda.

 

 

Autore: Fabio Meardi

Foto gentilmente concessa dal gruppo di rievocazione storica “Cives Regni Siciliae”

Fabio Meardi, Laureato in Storia, con indirizzo in Storia Medievale, e in Psicologia, con indirizzo in Psicologia Clinica, lavora come insegnante di sostegno nelle scuole superiori, formatore e psicologo.

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