Divisioni nella resistenza libica

Rinforzi per rompere l’assedio di Tripoli furono spediti a Caneva a novembre e dicembre del 1911. A fine anno risultavano il Libia 103.000 nostri soldati, un esercito imponente, tuttavia scarso in rapporto alla vastità del teatro delle operazioni e soprattutto impreparato rispetto ad un nemico mobilissimo che s’era pur’esso rinforzato. Quando però i libici si videro piovere addosso da Istanbul tanto denaro e grandi approvvigionamenti di armi, munizioni e viveri, tornarono a spaccarsi, a nutrirsi di invidie e raggiri. Le divisioni nella resistenza libica comportarono importanti successi per gli italiani.

Suleiman El Baruni si allontanò da Fekini e riaprì lo scontro secolare tra arabi e berberi. El Baruni, da lungo tempo, sognava una Tripolitania a direzione berbera, autonoma sotto l’egida della Sublime Porta o addirittura da essa indipendente. Per tre volte era già finito in caercere per avere sostenuto il diritto della Libia a sottrarsi alla dominazione ottomana ed ora il suo progetto si riaccese. Sapeva che turchi e arabi non avrebbero mai ricacciato gli italiani, sapeva che quella guerra l’avrebbero persa, ma pensava di giocare le sue carte alla fine del conflitto, contrattando con Roma quell’autonomia berbera che non era riuscito ad ottenere da Istanbul.

A dieci mesi dallo sbarco, Caneva aveva preso Tripoli, Homs, Misurata, Bu Chemmash, Sid Said, ma ogni tentativo di penetrazione era fallito. La Turchia intanto aveva perso il Dodecaneso ed annaspava in mille problemi finanziari. Giolitti, sorpreso dall’ostilità incontrata nell’entroterra tripolino, si orientò a tentare la carta diplomatica e inviò Giuseppe Volpi, futuro governatore dell’area, ad Istanbul, ufficialmente come presidente della Società Commerciale d’Oriente, ma segretamente per aprire trattative coi turchi. In effetti trattative si aprirono davvero. La Sublime Porta non era in condizioni di continuare a lungo il conflitto. Nesciat Bey mancava d’armi e munizioni, ne ricevé ancora, ma rinnovare la fornitura sarebbe stato arduo. Andava meglio ad Enver Pascià, in Cirenaica, perchè prendeva ciò che gli serviva dall’Egitto, così, quando fu firmata la pace a Ouchy, in Svizzera, tanto l’Italia quanto la Turchia furono felici. Giolitti vide le truppe ottomane abbandonare il teatro dello scontro e pensò che ora fosse facile debellare la resistenza dell’entroterra…

La Libia però era ancora tutta da conquistare e la guerra sarebbe continuata contro gli arabi di Mohamed Fekini. Questi, è vero, doveva scontrarsi con El-Baruni e Roma pensò di poterne trarre vantaggi. I due capi libici si contesero 20.000 lire turche e 12.000 sacchi di viveri stoccati a Ben Gardane, lasciati in eredità da Nesciat Bey. Chi fosse riuscito a prendere quel bottino avrebbe potuto affermarsi come guida indiscussa della resistenza. La spuntò El-Baruni e si riparò sulle alture di Gasr Iefren proclamandosi Emiro di Tripolitania. I libici erano tornati vittima delle loro divisioni, di incomprensioni, invidie, defezioni, voltafaccia. Di tutto volle approfittarne il generale Ragni, governatore di Tripoli.

Mentre i El-Baruni e Fekini si combattevano, Ragni occupò Svani Ben Adem, El-Azizia, Fondugh Ben Cascir, poi tese una mano a Fekini per mettere fuori gioco i berberi. Fu stretto un patto di riconciliazione, puntando a spazzare via il presunto Emiro di Tripoli e – nonostante problemi coi libici riconciliati si registrarono da subito con Fekini riconosciuto Caimacam di Fassato e non Mutasarrif del Gebel, come avrebbe voluto, e i detenuti deportati in Italia non rimpatriati, in barba agli accordi, – l’operazione riuscì. Anche altri capi e notabili della Gefara e del Gebel seguirono l’esempio di Fekini ed El-Baruni restò isolato con i suoi 3500 soldati berberi.

L’Emiro tentò altre carte. Inviò infatti a Roma dei suoi emissari per concordare l’autonomia del Gebel sotto protettorato italiano, ma ciò che non sapeva era che la sua avventura stava per finire. Il 23 marzo 1913, gli uomini del generale Lequio lo stanarono dalla conca di Asàbaa e lo costrinsero alla fuga verso Nalut e poi ad espatriare in Tunisia. Il Gebel fu così conquistato interamente da Lequio. Ora le nostre attenzioni potevano concentrarsi sul Fezzan.

La regione andava occupata prima che i francesi potessero accamparvi pretese e soprattutto prima che i senussi, ribelli della Cirenaica, se ne impossessassero. L’incario di prendere il Fezzan fu affidato al tenente colonnello di Stato Maggiore Antonio Miani e le operazioni presero il via il 9 agosto.

Una colonna di 1100 soldati, in maggioranza eritrei e libici, 10 cannoni, 4 mitragliatrici pesanti, 4 autocarri e 1756 cammelli con acqua e viveri, si mosse da Sirte verso Murzuch e Ghat. Prima ancora di venire a contatto con i combattenti locali, guidati da Mohammed Ben Abdalla, costruirono 50 chilometri di strada tra le rocce laviche della Montagna nera per far transitare gli autocarri con armi e munizioni. Tanto sforzo ed il successo arrivò nelle battaglie di Esc- Scebb, Eschida e Maharuga, con la morte di Ben Abdalla. Tanto sforzo eppure si dovette abbandonare tutto perchè il nostro contingente era lontanissimo dalle basi di rifornimento ed incapace – con 1100 uomini – di presidiare un territorio così vasto. Lo scoppio della Grande Guerra richiese altrove tante energie e le fragili strutture della presenza italiana in Libia finirono travolte dai senussi.

 

 

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Fonte foto: dalla rete

Bibliografia: A. Del Boca, A un passo dalla forca

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