Gioberti e il Gesuita Moderno

I nemici che Gioberti s’era fatto, anche dall’esilio, erano tanti e non solo tra i guelfi. I repubblicani non potevano accettare l’istituto monarchico neppure se avesse unito la Penisola ed oltretutto accusarono Gioberti di clericalismo; anche i federalisti si mostravano contrari al potere temporale: Cesare Balbo rifiutava l’idea di una presidenza pontificia per la confederazione italica, Luigi Torelli metteva Roma fuori da questa eventuale confederazione. Contro di essi, durante la Prima Guerra di Indipendenza egli orientò i suoi sforzi, riordinando le fila dei liberali e provando a neutralizzarli col sostegno di Cavour e del suo giornale, il Risorgimento.

Da deputato della camera subalpina, poi presidente, intraprese una serie di viaggi nell’Italia settentrionale e centrale, e solo la violenta repressione del 15 maggio 1848, lo trattenne dal giungere sino a Napoli. Fu persino da Pio IX per convincerlo a incoronare Carlo Alberto quale nuovo re d’Italia, a Milano, con l’antica corona ferrea. Il pontefice con pacatezza si chiamò fuori dai giochi e gli rispose che se il Savoia glielo avesse chiesto non si sarebbe opposto. Gioberti, afferrò bene che Pio IX non aveva alcuna intenzione di ricoprire il ruolo che egli gli attribuiva nel Primato, ma provò più volte a rilanciare la lega degli stati italici dopo Custoza e capì subito che le repubbliche di Roma e Toscana sarebbero stati facilmente abbattute.

Deluso, travolto dalle accuse dei suoi oppositori, si dimise il 20 febbraio del 1849, un mese dopo l’esercito sardo subì la disfatta di Novara e, sul finire di maggio, Pio IX condannò la sua nuova opera, il Gesuita Moderno.

I gesuiti – l’aveva già chiarito nei Prolegomeni del primato – rappresentavano per Gioberti i veri nemici, gli oscurantisti, i reazionari, quelli che non volevano alcuna riforma della Chiesa, gli irriducibili nemici delle riforme liberali e della rivoluzione italiana. Già in Francia avevano ostacolato la révolution.

A rispondergli per le rime ci pensò padre Carlo Maria Curci con diversi scritti coi quali accusava il filosofo torinese di usare la religione come strumento per raggiungere fini politici e considerare il papa solo come una pedina dei suoi giochi.

D’innanzi a queste critiche Gioberti inasprì la sua polemica: la Compagnia di Gesù era una setta sviata, l’amica dell’Austria, “la milizia… più fida alleata e complice dello straniero” che, approfittandosi di stati deboli perché privi di identità nazionale, manipolava le menti, soprattutto quelle dei giovani, li rendeva schiavi dei suoi interessi, spegneva ogni capacità di ragionamento, ogni pensiero critico.

“Se tu guardi alla loro origine – scrisse –, sono italianissimi; perché il biscaglino Ignazio non volle metterli al mondo che in Italia, e diede loro colla cittadinanza romana la maggiore italianità che immagina si possa, come quella che non fu effetto di fortuna, ma consiglio di sapiente elezione. Anche ora il Generale della Compagnia risiede nella città santa, e l’Italia è la prima delle sue province o dizioni che dir vogliamo. Ma come può stimarsi italiano un Ordine che fa guerra implacabile agl’interessi civili e nazionali d’Italia…”. Per Gioberti la compagnia andava riformata: “è una consorteria religiosa e politica ad un tempo, si dee riformare religiosamente, tornando alla santità della sua origine; e politicamente, conformandosi ai concetti e ai bisogni dei giorni nostri tanto diversi da quelli in cui vide la luce…”.

La strada del suo secondo esilio si aprì quando ormai si era inimicato gran parte del mondo cattolico italiano.

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

Bibliografia: A. Arrighetti, L’edifizio del mio primato; M. Sancipriano, Vincenzo Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento

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