Gli ultimi giorni della monarchia

Alle 15,15 del 9 maggio del 1946, nella Villa Maria Pia di Napoli, Vittorio Emanuele III, firmò un atto di quattro righe su un foglio di carta bollata da dodici lire, presso il notaio Felice Angrisani. Era la sua abdicazione. Dopo quarantasei anni di regno, Vittorio Emanuele III assunse il titolo di Conte di Pollenzo, trasferendosi poi in Egitto, ospite di re Faruk. “Abdico alla corona del regno d’Italia in favore di mio figlio Umberto di Savoia principe di Piemonte”, c’era scritto su quel foglio, così il luogotenente del regno diveniva il nuovo re d’Italia, Umberto II.

La misura fu uno dei punti di compromesso col sistema partitico emerso nella resistenza. Vittorio Emanuele III apparve incerto, preoccupato forse della sua immagine storica, timoroso di passare per vile, poi si persuase, confidando ogni speranza al generale Paolo Puntoni, suo aiutante di campo generale: “Con la mia abdicazione la posizione di mio figlio e della dinastia saranno consolidate. Ciò che ne pensa l’opinione pubblica non mi itneressa”. La mossa accontento democristiani, socialisti e comunisti, ed impedì che qualcuno ragioni d’affidare la corona ad altra famiglia. In più, Umberto II era amato, compito, sorridente, con lui la bilancia pendente per la Repubblica poteva riequeilibrarsi.

Umberto II si mosse con decisione il 9 maggio, alle 12,45 era a Posillipo accompagnato dal generale Giuliano Cassiani Ingoni, alle 17.00 l’incrociatore Duca degli Abruzzi con il caccia Granatiere salparono scortando il vecchio re in esilio: Vittorio Emanuele III vide per l’ultima volta il golfo in cui era nato. Attorno al nuovo sovrano si stringono Falcone Lucifero e suo fratello Roberto, il senatore Alberto Bergamini, i giuristi Vittorio Emanuele Orlando e Carlo Scialoja, il magistrato Giovanni Colli, il giornalista Manlio Lupinacci, l’eroe della Resistenza Edoardo Sogno del Vallino, il politico Vincenzo Selvaggi. Insieme preparano la lettera che fu consegnata la mattina dopo a De Gasperi precisando che la successione è avvenuta ope legis, il governo non può avere nulla da obiettare.

I sostenitori della monarchi organizzarono grandi manifestazioni in quei giorni per salutare Vittorio Emanuele III ed Umberto II. In quei giorni De Gasperi iniziò ad essere possibilista sulle sorti della monarchia, solo Togliatti attaccò i reali con un articolo sull’Unità dal titolo “L’ultima fellonia dei Savoia”. Si aprì così la campagna elettorale.

Le tappe dell’iniziativa monarchica furono un comizio a Roma il 5 maggio conclusosi con la deposizione di una corona d’alloro al Milite Ignoto, poi Umberto II toccò la Sardegna, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Milano, Verona. A volte trovò indifferenza, chi lo accolse con calore fu soprattutto la gente del Sud, ma il Principe di Piemonte parve poter sottrarre voti al fronte repubblicano. Si andò alle urne in un clima di incertezza, poi la proclamazione ufficiale: la Repubblica aveva vinto.

Votarono circa 24 milioni 950 mila cittadini: l’89,1 per cento degli aventi diritto. Vinse la repubblica con 12.718.641 voti contro i 10.718.502 della monarchia. In tutte le province a nord di Roma, tranne a Padova e Cuneo, vinse la repubblica; in tutto il Sud, tranne Latina e Trapani, vinse la monarchia ottenendo il risultato migliore a Napoli, con il 79% dei voti. Si conteggiarono oltretutto ben 1 498 136 voti nulli.

Cosa accadde veramente?

La decisione monarchica di contestare l’esito del referendum nacque gradualmente e le piazze si accesero di entusiasmo e rabbia. Irregolarità, schede sparite, una lunga ombra di dubbi palesarono il sospetto che si stesse vivendo un colpo di stato o, come lo definì Umberto II, un “gesto rivoluzionario”. Non tutti gli italiani ebbero l’opportunità di votare. Ad esempio, non votarono i militari prigionieri di guerra nei campi degli alleati, non votò la provincia di Bolzano, nè i cittadini della Venezia Giulia, della Dalmazia, dell’Alto Adige e della Libia, all’epoca ancora italiana. La polemica imboccò le vie legali con un ricorso presentato dal monarchico Vincenzo Selvaggi: ci si chiese come dovessere essere calcolata la vittoria, se sulla base dei voti validi o su quella dei “votanti”.

Eppure c’era da evitare violenza e disordini, come quelli che avevano portato alla strage di Via Medina. Umberto II dunque, con gesto i profonda responsabilità, la mattina del 5 giugno ordinò alla regina Maria José di lasciare l’Italia per il Portogallo. Alle 15.30 la regina partì dal Quirinale con i figli Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella e Maria Beatrice. S’imbarcarono a Napoli sull’incrociatore Duca degli Abruzzi, appena rientrato da Alessandria d’Egitto. Dopo due giorni di tensione De Gasperi assunse i poteri di capo dello Stato, poi anche il re partì alla volta del Portogallo.

Più tardi la Corte di Cassazione respinse a maggioranza il ricorso monarchico, stabilendo che “votanti” non significava “chi vota” ma chi esprimeva un voto valido, diversamente il divario tra monarchia e repubblica sarebbe sceso a 250 mila preferenze. Una differenza minima, che avrebbe anche potuto rimettere in gioco il risultato.

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

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