Le armi d’assedio dei Normanni

Tenere una città sotto assedio poteva risultare impegnativo ed estenuante, in più difficilmente si riusciva ad espugnare un centro ben fortificato. Lo capirono bene i normanni.

La presenza bizantina nella Penisola, conseguente il crollo del regno goto, fu erosa dall’espansione longobarda verso Sud del VII secolo. Il processo continuò impetuoso e turbolento sino al IX secolo, quando i Bizantini riuscirono a recuperare parte dei territori perduti. In quegli stessi anni però si crearono le condizioni per il definitivo tracollo del controllo di Bisanzio in Italia. In un contesto territoriale dominato dalle divisioni longobarde e dal continuo stato di belligeranza di questi con i Bizantini, iniziarono infatti a stabilirsi gruppi di mercenari normanni che nell’arco di un secolo sottrassero la Sicilia e l’intero territorio a Sud del Liri ai contendenti.

Il perno dell’organizzazione militare del Catapanato bizantino era costituito dai temi, battaglioni di circa 200-500 uomini, il cui reclutamento si basava sulla strateia, un sistema che, in cambio di terre, impegnava i proprietari a fornire servizio militare totalmente a loro carico senza gravare sulle finanze pubbliche. Nel XI secolo, la strateia divenne solo una tassa e ciò determinò il ricorso sempre più ampio alle truppe mercenarie nonché a kontaratoi, milizie territoriali arruolate tra la popolazione locale. L’incontro coi Normanni diede luogo ad uno scambio di nozioni militari, a rivolte, come quella di Melo di Bari, a parziali integrazioni nell’esercito imperiale ed a scontri aperti.

Fu la battaglia di Olivento, nel 1041, ad aprire in effetti la lunga fase della conquista normanna. Settecento cavalieri, guidati da Guglielmo d’Altavilla, persino privi di equipaggiamento completo, si disposero su di una sola linea frontale, supportati sulle ali da cinquecento fanti e cavalieri appiedati; i bizantini, in superiorità numerica e sotto il diretto comando del catapano Michele Dokeianos, erano posizionati su tre linee, una frontale d’attacco, la seconda di supporto, la terza di riserva, e si mossero secondo gli schemi farraginosi dei trattati militari imperiali: non ressero l’impeto delle cariche frontali normanne.

L’avanzata normanna non trovò ostacoli neppure negli eserciti dei principati longobardi e dei ducati autonomi, la cui difesa era incentrata su opportunismi diplomatici, milizie cittadine e mercenari musulmani, e si completò con la conquista di Napoli nel 1140.

Se l’importanza della cavalleria normanna è oggi un fatto assodato, e testimoniato dalle preziose raffigurazioni di cavalieri con lancia e corazza di maglia di ferro presenti in un pulvino conservato nel Museo dell’Abbazia di Montevergine, in un secondo presente nel chiostro della Chiesa di Santa Sofia a Benevento, e nel capitello della cripta della Cattedrale di Sant’Agata dei Goti, è altresì nota la difficoltà che i Normanni incontrarono negli assedi.

A digiuno di tecniche ossidionali, i Normanni si ritrovarono incapaci di opporre alle mura delle fortezze bizantine e longobarde adeguati congegni e tecniche.

Permangono ancora oggi degli interessanti esempi di fortificazioni bizantine, per lo più in Puglia, come a Sant’Agata di Puglia, Bovino, Fiorentino, Troia ed a Castello di Sant’Aniceto, in Calabria, lungo cioè quel limes che bloccò l’espansione dei Longobardi. Studiandole si può comprendere quanto dovettero faticare i Normanni per sottomettere questi territori. Solo col tempo, sconfitta dopo resa, abbandono dopo rinuncia, dovettero appropriarsi delle conoscenze dei poliorceti bizantini (come quelle contenute nel trattato “Sulle macchine da guerra” di Erone di Bisanzio) ed, in ogni caso, poche furono le città espugnate.

La fortezza longobarda di Capua nel 1056 con Riccardo Drengot ed ancora nel 1098 con Ruggero d’Altavilla, come quelle bizantine di Reggio Calabria nel 1059 o Troia nel 1060, furon prese per fame dopo essere state per lo più circondate da padiglioni e castelli di legno che permettevano l’interruzione delle linee di rifornimento.

Pure Bari, sede del Catapano, visse un assedio lungo tre anni: Roberto il Guiscardo fu tenuto a bada dal 1068 al 1071, nonostante si sforzasse di combinare l’impiego di macchine, torri e congegni che lanciavano pietre per demolire le mura cittadine. La città si arrese solo per fame come riporta Guglielmo di Puglia: “Il duca attaccò con ardore gli abitanti della città che gli resistevano con coraggio e valore. Egli allora ingegnosamente fece avanzare, davanti alle porte, delle graticciate, sotto cui dispose dei soldati armati, pronti a fare imboscate. Fece, inoltre, costruire una torre di legno, che sorpassava in altezza le mura della città, fiancheggiata ai due lati da macchine che lanciavano pietre, e munite di tutti i congegni capaci di demolire le mura. I cittadini non difesero di meno, per la presenza di queste macchine, la città… I Normanni applicarono diverse macchine alle mura per farvi breccia ed aprirsi verso la città l’accesso che era loro impedito da uno stretto passaggio di terra, chiuso e circondato da tutte le parti dal mare, perchè Bari non è un0isola. Da questa parte il duca aveva piazzato le sue tende, dall’altro lato, dopo aver bloccato il mare con le navi che formavano una barriera, impediva alle navi baresi di avanzare. Egli costruì anche per la sua flotta un porto ed un ponte, e sul ponte una torre. In questo modo era precluso agli abitanti di uscire dalla città da tutti i lati. La flotta normanna, al ridosso, guardava il porto. Ma i cittadini presero la torre e demolirono la maggior parte del ponte marino… La città era essediata da più di tre anni. Alla fine capitolò, prostrata da molteplici sofferenze, ma soprattuto dalla fame”.

Egual cosa si ripetè quando Roberto il Guiscardo assediò Palermo del 1071. Più tardi anche Ruggero II diede prova di aver appreso al meglio le lezioni dei Bizantini. E’ il caso dell’assedio di Montepeloso, uno dei pochi realizzati con successo, descritto da Alessandro di Telese: “…c’era davanti al barbacane della stessa cittadella un luogo detto catuvella, fortificato da un consistente terrapieno, in cui stava raccolta quasi tutta la cittadinanza pronta a difendersi. E quando la coorte del re scacciandoli irruppe violentemente, Tancredi allora coi suoi soldati respingendoli con forza li costrinse ad abbandonare il terrapieno e a retrocedere. Infine i soldati del re, raccolte le loro forze, facendo impeto di nuovo contro Tancrdi e i suoi, respintili, recuperano il terrapieno. Tancredi dunque e i suoi, ricacciati del tutto da quel luogo, vengono a rifugiarsi all’interno del barbacane. Del resto il re, comprendendo che la città era molto ben fortificata e che c’era in essa una schiera ben pronta a combattere, gioca d’astuzia; cioè pensa a come poter prendere con l’abilità la città in cui non poteva entrare col combattimento. E così, costruita una grande macchina bellica, facendola muovere lentamente, egli dà ordine d’avvicinarsi subito alle fortificazioni della città; e in questo modo stando di fuori combattevano in alto faccia a faccia con i cittadini grazie ad essa, scagliando dardi gli uni contro gli altri. Intanto, mentre si combatteva così da ambo le parti, alcuni Saraceni lanciavano incessantemente grazie a quella macchina pezzi di legno con cui riempire il fossato; mentre altri, togliendo dalla sommità del terrapieno la terra con rastrelli di ferro, e fettandola sui pezzi di legno, a gran fatica tentavano di spianarlo. Tancredi dunque, vedendo che il fossato veniva riempito, subito si affrettò a farci immettere fuoco e materiale infiammabile perchè più facilmente si accendesse, per far bruciare i legni. Di contro per mezzo di un canale ligneo si deviò subito dell’acqua per spegnere il guoco che veniva gettato. Spento il fuoco, di nuovo quelli erano sulla macchina, con una lunghissima pertica alla cui estremità era un grosso uncino di ferro, cominciano a strappare lo stesso antemurale, che volgarmente è chiamato anche barbacane. Ma quelli che difendevano il barbacane, vedendo la pertica che lo stava demolendo, tenendola ferma la tagliano con violenza. E dopo che per tre volte ancora furono tese pertiche, e tagliate da quelli, alla fine tenendola fecero crollare buona parte del barbacane. E quando, visto ciò, i cittadini furono presi dal terore, si volsero in futa tutti…”.

Baliste e catapulte ricalcavano forme ed usi del mondo antico. Gran parte del sapere poliorcetico era il prodotto del recupero del sapere romano ed ellenistico, con l’eccezione della macchine da lancio che differivano per struttura e meccanismo (a torsione le antiche, a contrappeso le medievali).

Per essi anzitutto si affrontava il problema del trasporto e dello spostamento in loco. Pensiamo al trabucco, per esempio. Questa enorme catapulta fissa poteva sì scagliare massi sino a trecento metri di distanza ma la sua mole rendeva impossibile un suo veloce ricollocamento.

Per evitare problemi di trasporto la poliorcetica medioevale preferì spesso il “mangano”, una specie di fionda a contrappesi che lanciava a quasi duecento metri dei proiettili di più di venticinque chili. Nonostante le grandia dimensioni, queste macchine avevano il vantaggio di poter essere montate sul luogo, dunque le difficoltà di trasporto erano ridottissime e tutto si risolveva in un lavoro di assemblaggio dei carpentieri al seguito dell’esercito.

Non meno complesso dovevano essere il congegno usato a Montepeloso per sollevare i soldati sino ai nemici appostati sulle mura e la “longissima pertica in cuius summo uncinus ferreus erat”, la lunga pertica rotante con uncino in ferro capace di distruggere il barbacane, che già compare nei Poliorcetica di Apollodoro di Damasco.

Dalle cronache prese in esame siamo a conoscenza pure del fatto che i Normanni usarono “graticciate”, ovvero strutture a protezione di militi che, così riparati, avanzavano sin sotto le mura della città e questo ricorda molto da vicino i gatti, carri in grado di fornire copertura a coloro che si avvicinavano al castello. I gatti erano ovviamente costruiti sul posto, bagnati abbondantemente e ricoperti di pelli fresche di animali, dunque più difficili da infiammare; essi permettevano di spostare un consistente numero di uomini fin sotto le mura d’una città a lavorare con picconi e trapani a muro per aprire una breccia.

Fu solo agli inizi del XIII secolo, con la comparsa delle prime armi da fuoco, che gli assedi incominciarono a mutare notevolmente rispetto al passato.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibliografia:

G. Andenna, Le piazze e i mercati, in Centri di produzione della cultura nel Mezzogiorno normanno-svevo
G. Musca, V. Sivo, Strumenti, tempi e luoghi di comunicazione nel Mezzogiorno normanno-svevo

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