La parabola del brigantaggio politico

Il 13 febbraio del 1861, Francesco II, dopo un lungo assedio, decretava la resa della fortezza di Gaeta e si recava in esilio a Roma, fermamente intenzionato a riprendere la lotta per tornare in possesso del suo regno.  Stabilitosi prima al Quirinale e poi a Palazzo Farnese, il re spodestato diede vita ad un governo borbonico in esilio che si impegnò a contrastare l’avvenuta unificazione con ogni mezzo, propagandistico, cospirativo ed anche militare. Così si generò la guerra del brigantaggio.

Il Settecento conobbe una notevole riduzione degli aspetti delinquenziali, banditismo compreso, nel Regno di Napoli. Dimenticati il terribile Marcone, che nel 1563 marciò alla conquista di Crotone alla testa di millecinquecento banditi, ed il feroce “Abbate” Cesare Riccardo, che si permetteva di compiere scorrerie fino alle porte di Napoli nel 1672, la società napoletana vide emergere un nuovo ceto di burocrati e professionisti emancipatosi dal potere feudale. Fino ad allora le statistiche avevano parlatano chiaro: tra il 1675 ed il 1679 c’erano state 3.137 condanne di banditi. Ora, la borghesia agraria, in genere d’origine armentizia, andava infrangendo gli usi antichi e superando i privilegi nobiliari, impadronendosi lentamente dei terreni demaniali, anche con abusi ed usurpazioni. Negli ultimi decenni del Settecento però, la grave crisi dell’economia armentizia interruppe l’imponente processo di mobilità sociale e il Regno di Napoli ritornò in una profonda crisi occupazionale del mondo pastorale. Tutto ciò, nell’imminenza dei noti fatti rivoluzionari di fine secolo, costituì un’ideale base di partenza per la riesplosione del brigantaggio. Comparve allora subito un “Re della Campagna”, ovvero Angiolo Duca, meglio noto come Angiolillo, e il Salernitano e la Capitanata furono messe a ferro e fuoco tra il 1783 ed il 1784. L’evento che portò il brigantaggio prepotentemente a galla fu l’invasione francese del 1798 ed il protrarsi della sua occupazione durante il periodo napoleonico. Se una parte della nobiltà feudale, dai Carafa ai Doria, dai Caracciolo ai Torella e ai Pignatelli, aderì ai nuovi principi cogliendo i mutamenti dei tempi, la borghesia armentizia si tenne in un atteggiamento di prudenza e quella baronale invece provò a recuperare il potere perso organizzando le truppe controrivoluzionarie in nome del trono e dell’altare. Così, in un primo tempo il “popolo basso” interpretò l’eguaglianza con la fine del pagamento dei diritti feudali ed estendendo l’applicazione degli usi civici, ma in un secondo tempo divenne il protagonista delle insorgenze. Paradossalmente la buona prova fornita dalle formazioni della Santa Fede in Calabria e nel Principato Ultra fu guardata con apprensione e sospetto dai Borbone perchè quella partecipazione popolare richiamava, per assurdo, la minaccia della Rivoluzione Francese ed era effettiva espressione di una frattura sociale tra le classi del regno. Così, Giuseppe Bonaparte e Murat stroncarono il fenomeno del banditismo, ma alla Restaurazione i Borbone dovettero, per forza di cose, tentare la politica dell’amalgama provando a ricostruire equilibri di potere. Ci furono risultati magri, in vero, e il mancato assorbimento di quell’aspra conflittualità, unita alla contemporanea stasi della mobilità sociale, determinarono di fatto il permanere di una sotterranea guerra civile fatta di sette segrete: Calderari, Filadelfi, Carbonari, Decisi, Pugnalatori etc. Le sette seminarono rivalità e idee politiche nuove ed incisero non poco sui fatti del 1820-21, sui moti del Cilento del 1828 e sulla grande esplosione del 1848. Provarono ad approfittarne i murattiani, mentre la corte tentava di occultare tutto in una apparente normalità con una politica di immobilismo per la paura che le riforme potessero portare a galla le tensioni sociali. I sovrani sottovalutarono le spinte che attraversarono il regno come sottovalutarono l’alleanza di Napoleone III coi Savoia e dettero in questo prova di non comprendere le evoluzioni degli equilibi politici della Penisola. L’impresa garibaldina avrebbe confermato la cosa.

Nell’esilio di Roma il governo borbonico provò a replicare le insorgenze antifrancesi, in particolare in Abruzzo, Terra di Lavoro, in Basilicata e nel Sannio e in un progetto che univa i vecchi baroni ed i contadini da essi sfruttati. Intervistato dal Massa, il capobanda Giuseppe Caruso, già guardiano della potente famiglia Saraceno di Atella, implicata nella reazione, affermò: “Noi poveri servi di campagna così come già i pastori, i cavallanti e gli stessi fattori, senza entrare nel merito dei partiti, ci eravamo associati alla causa dei nostri padroni, diventando a nostra volta involontariamente liberali o retrogradi, senza essere in grado di misurare gli effetti di quella nostra condizione”.

Saccheggi, scorrerie, ladrocini, violenze e omicidi costituirono i tratti di una sollevazione disordinata e caotica, priva di un centro di comando e di adeguati mezzi finanziari, spesso fomentata da poteri locali, da faide familiari, da sentimenti di vendetta, dalla possibilità di lucrare cariche comunali, da desiderio di rivalsa. Nel corso del massacro dei proprietari avvenuto durante la reazione di Carbonara nel 1861, uno dei contadini che inferì a colpi di scure sul corpo già morto di un liberale ripeteva: “Hai mangiato sangue mio!”.

L’incancrenirsi senza prospettive di una siffatta lotta e il costante ricorso alle devastazioni delle proprietà ed al vandalismo agrario, determinarono via via anche l’allontanarsi dai borbonici di nobiltà reazionaria, baroni e pure contadini, tutti vittime delle violenze, dei furti, della crisi economica generata dal blocco di ogni attività lavorativa. Così il brigantaggio perse ogni valenza politica.

 

 

 

Autore articolo: Angelo D’Ambra

 

Bibiliografia: V. Romano, P. Zanetov, Storia del brigantaggio politico post-unitario (1860-1870)

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Un pensiero su “La parabola del brigantaggio politico

  • 4 Settembre 2020 in 13:54
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    Complimenti, sintesi chiara ed efficace

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