Stregoneria in Val Camonica

Parliamo di Stregoneria. Il testo che segue porta per titolo “Di un processo di stregheria in Valcamonica nel secolo XVI”. E’ tratto dal giornale “Il Crepuscolo” del 14 febbraio 1858 ed analizza con attenti particolari le sanguinarie repressioni dei movimenti ereticali nel Nord Italia tra il Quattrocento ed il Cinquecento.

 

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Da tutte le storie è dimostrato che, in generale, alla coltura s’accompagna sempre la forza, quindi la tolleranza, la mitezza, la giustizia, mentre gli opposti difetti rattristano ognora i popoli più ignoranti e più vicini a selvatichezza. Non avvi legge, istituzione, principio teoretico di qualità alcuna, che valga a francare un popolo barbaro da atti crudeli, violenti, tirannici contro le genti proprie e contro le straniere. Giacchè, se il complesso della civiltà di questo popolo non è tale, che quella legge, quell’istituzione, quel principio vi si possa acconciare naturalmente e senza violenza per modo da infiltrarvisi e provocare continui e successivi sviluppi, esso popolo ne accetterà i nomi e le forme, ma non lo spirito, o solo qualche parte e non tutto, trasformando anche questa parte nella vita propria. Laonde a quel modo che in una stessa città, colla religione medesima e colle stesse leggi ed istituzioni, s’incontrano tante diversità di individui, così, in vasto spazio di tempo e di luogo, sotto il dominio della medesima religione e di simili istituzioni, s’incontrano popoli molto differenti rispetto all’umanità. Nei più rozzi e deboli, alla reazione eccitata dal bisogno di difesa, s’aggiungono le intolleranze e le sevizie persuase da fremiti superstiziosi, da subite paure fantastiche, sotto il tormentoso dominio delle quali anche gli animi soavi spesso esercitano atti crudeli sopra sé e sopra gli altri col pio fervore di chi crede adempiere un alto dovere. Quindi vuole giustizia che le crudeltà nelle leggi, nei costumi, nei fatti pubblici e privati, sieno commisurate al grado di coltura generale; che non si giudichi il complesso della società dal valore di alcuni principii teoretici generali che vi sono diffusi, nè che a quei principii si attribuiscano i fatti di quelle società; e che a migliorare l’umanità si promuovano la coltura, e quelle libertà nelle quali soltanto essa può svolgersi. Perchè la coltura aumenta il capitale materiale e morale della società e degli individui, ne moltiplica la produzione, quindi accumula l’azione benefica dell’uomo sull’uomo, stringe il legame degli individui e dei popoli, ed allarga ed intesse ognora meglio la loro solidarietà. Sicchè, mentre i selvaggi uccidono i nemici e li imbandiscono, i popoli industriosi, se fra i vinti trovano schiavi, li emancipano e li educano per aumentarne il reddito, e le società pel loro interesse si studiano col lavoro profittevole e nobilitante sanare le piaghe dell’accattoneria, della prostituzione, del carcere, del cretinismo.

L’animo nostro, inorridito alla scoperta di terribili scene di disperazione, di terrori, di eccidii, fra gente semplice e rozza, a nome della carità evangelica addotti da barbari per esaltamento ed ignoranza, contenuti solo dalla saviezza ed umanità del colto senato veneto, cercò avidamente come accadano queste sciagure, come si ponno medicare o prevenire, e fu confortato dalle conclusioni che premettemmo invertendo l’ordine, onde i lettori ne possano seguire più pacati e fidenti e riflessivi nel corso dei fatti che siamo per narrare.

Non è nuova la ricerca di processi di stregheria, poichè le cose misteriose esaltano la fantasia ed eccitano vivamente la curiosità di tutti. E molti infatti trassero alla luce e pubblicarono processi di malefici e di streghe e di demoniaci con diversi intendimenti. Alcuni senz’altro intento che quello di soddisfare la curiosità e trarne speculazione materiale; altri per eccitare odii popolari contro principii complici all’apparenza; altri studiosamente per tentare nervi dilicati e fantasie deboli ad accettare la teoria di Arimane dei buoni tempi, e farsene strumento di salutari terrori; altri finalmente sulle nobili traccie di Manzoni per diffondere nella coscienza pubblica la commiserazione dei mali aggravati sull’umanità dall’ignoranza, e dall’intolleranza, e dal predominio delle passioni che violentano le leggi a farsi loro ministre.

La storia dei mali sociali e delle aberrazioni dello spirito o della mente è sempre importante per sè, ma lo diventa ancora più, se può trovare applicazioni presenti e future. Nessuno sano di mente può temere il rinnovarsi dei processi di stregheria; ma pervertimenti digiudizii e violenze, anche in buona fede, per ignoranza e per passioni soverchianti e tiranneggianti la ragione, accadono ognora ed accadranno ancora, sebbene non sì frequenti, né truci come per lo passato. Laonde stimiamo opportuno tornare su queste miserie, sia per completare studi storici, sia per offrire esempi che valgano a crescere l’amore della tolleranza, della ragione e della coltura.

Nelle lotte fra la chiesa e l’impero, fra le potestà laiche e clericali, e fra i dignitarii ecclesiastici, i chierici e i frati semplici, ebbero alimento scismi ed eresie. Specialmente quando, fra la notte dei secoli intorno il mille, si mise la luce dei Saraceni, che dalla Spagna, dalla Sicilia, dalla Sardegna, dal monte Gargano, dai passi delle Alpi assediarono il cuore della cristianità, e quando gli alteri Svevi colle loro spade combatterono il partito guelfo in Italia. Le Alpi, dove solo nel secolo IX si spense colla forza la pubblicità del culto pagano, dove un secolo dopo, dal 891 al 900, serpeggiò l’islamismo, dove allo schermo dei burroni e delle selve si serbavano prischi costumi ed idiomi, e dove riparavano i minacciati dalle violenze, le Alpi, più che i paesi aperti, furono nel medio evo sparse di idee e pratiche eterodosse. Nei parlari tedeschi wald vale ovunque selva, luogo boscoso, onde Vallese, Unter-Walden, Wallenstadt nella Svizzera; laonde Valdesi sarebbe parola generica significante silvestri. Come altri vocaboli, questo, progredendo, si tolse come nome speciale di dissidenti religiosi abitanti ne’recessi delle Alpi, di oscurissime origini, e non distinti per lingue e per valli; laonde più tardi si confusero cogli Albigesi della Provenza. Contro de’ quali Papa Innocenzo III nel 1204 fece predicare la crociata nella Francia, e da quella escì la inquisizione, che rendevasi anche indipendente dai vescovi. Di là per Onorio III si stese anche in Italia, dove venne lo spagnuolo S. Domenico,

E negli sterpi eretici percosse / L’impeto suo, più vivamente quivi, / Dove le resistenze eran più grosse.

Quell’onda menò seco anche i principi e i comuni in lotta colla chiesa; laonde Federico II, forse simulando, nel 1224 pubblicò decreti contro gli eretici; tutti gli statuti delle repubbliche misero fra i primi doveri dei reggitori la persecuzione degli eretici e degli stregoni che a quelli si assimilavano; e persino il doge di Venezia nella promissione del 1249 fa questo giuramento. Ci studieremo, col consiglio dei consiglieri nostri, di far eleggere buoni e discreti cattolici ad inquisire eretici in Venezia. E tutti quelli che sarannoci consegnati come eretici da vescovi faremo abbruciare col consiglio de’consiglieri nostri (comburi faciemus de consilio nostrorum consiliariorum). Dove si noti la riserva di farli giudicare dai consiglieri, ovvero giudici ordinarii laici. Però nel 1301 il padre Antonio, inquisitore nella Marca Trevisana, si lagnò colla repubblica, perchè deludesse le promesse sulla inquisizione, e il doge Pietro Gradenigo rispose avere giurato solo di dare aiuto al santo ufficio, in quanto non ledesse le costituzioni della repubblica. E quando era più urgente e maggiore la minaccia della riforma, quando i Grigioni ed il Comasco fumavano di centinaia di roghi di stregoni ed eretici, il consiglio dei dieci, stretto da vicino, ed escito di fresco e sfinito dall’aggressione di Cambrais, decretò che all’inquisizione dovessero assistere i rettori di Venezia e due dottori di legge laici da loro eletti. Poscia quel consiglio medesimo con grande segretezza scrisse a tutti i rettori delle sue provincie che, se accadesse dover inquisire persona onde possa seguirne scandalo, prima di arrestarla si avvisi il consiglio dei dieci, e così facciano anche ogni volta che i processi portino condanna di mutilazione, di confisca o di morte. Però osserva Romanin che di 63 processi di streghe ed eretici fatti nel territorio della repubblica dal 1547 al 1550, 19 vennero sospesi, negli altri le condanne sono per la maggior parte di multa o bando, poche di carcere temporanea, una di galera, una di morte. E ciò fa commento a quanto scriveva il Corbellini rispetto alla inquisizione in Crema. Nel secolo, in cui Luigi XIV denominato il grande, revocava l’Editto di Nantes, sembrerà strano veder gli atti di un Sant’Uffizio nella repubblica veneta consumarsi in nove anni (dal 1618 al 1627) nelle paterne ammonizioni a qualche bestemmiatore, nell’ imposizione della recita di alcune periodiche preghiere a qualche eterodosso reso alla vera fede, e nella circospetta disamina di qualche caso di sortilegio, sempre lasciati senza conseguenza per mancanza di prova. (Rivista Europea. Dicembre, 1847).

Se Venezia fosse stata meno civile e meno libera, non avrebbe potuto resistere alle tentazioni del fanatismo, e il di lei governo, anche se mite, avrebbe dovuto subire la pressione del popolo esaltato ed invelenito. Giacchè spesso gl’inquisitori erano popolo e servivano di buona fede, ed erano sorretti ed applauditi e venerati dalle moltitudini miserabilmente ignoranti che s’accalcavano intorno le tristi schiere de derelitti condotti ai roghi, e le colmavano d’imprecazioni, ed acclamavano con selvaggio tripudio alle loro strida, che stimavano voci del demonio scornato. Le quali scene terribili e miserande accadevano specialmente nelle condanne per stregoneria e fattucchieria, giacchè attribuivansi a questi maliardi tutte le grandi calamità pubbliche e private, mentre le colpe invece d’eresia, quando non fanatica, ma tollerante e cheta, erano dure a comprendersi, nè irritavano i nervi. Laonde, ove si volesse ottenere l’indispensabile suffragio e cooperazione popolare a distruggere eresie col ferro e col fuoco, era molto espediente dare loro il colore di stregoneria e di fattucchieria, colle quali già erano confuse nelle radici, perchè tutte operazioni e consigli del diavolo. Le 300 persone abbruciate a Como nel 1416, le 41 arsevi nel 1485, le altre 300 pure arrostite nel 1514, oltre le molte più numerose della diocesi, le 6500 persone poste sui roghi a Treveri intorno il 1484, tutte per stregoneria, pensiamo fossero specialmente eretici, molto più che nel loro processi si trova sempre anche l’accusa d’eresia, che nel pubblico era soverchiata da quella di stregoneria. Perchè queste ubbìe erano sì profondamente radicate nelle moltitudini, che prendeano dominio persino inalcune menti dotte, nè furono rigettate dagli ardimenti della riforma, sorta in mezzo quegli orrori. Perciò C. Cantù nel 1831, in tempi di più schietta gioventù, riferendo que processi di Como, esclamava: or vengano quelli che ci van ripetendo: oh al buon tempo antico! oh i nostri buoni vecchi! (Storia di Como. V. 2, p. 118)

Gli storici più antichi dei Valdesi riferiscono di questi esserne stati prima del 1500 parecchie migliaia a Venezia. Nessuna memoria di questa città conferma tale asserzione; laonde noi argomentiamo quegli scrittori avere confuso la città capitale col dominio, comprendente già le valli alpine di Bergamo e di Brescia, quindi la Valle Camonica, dove nel 1518 seguì il processo degli stregoni che siano per accennare. Queste montagne dal 1296, in cui vi scoppiavano in aperta e minuta guerra le parti guelfa e ghibellina, sino al 1428 in cui si ricomposero sotto il savio dominio di Venezia, che non lasciò più imbaldanzire la fazione ghibellina, vennero desolate da continue stragi, incendi, devastazioni; laonde l’istruzione laica ed ecclesiastica vi fu abbandonata per modo che nel secolo XV vi erano pochi preti e frati, e di questi parecchi non sapeano che leggere la messa, talchè l’istruzione religiosa normale in parecchi luoghi era nulla. L’azione della chiesa invece vi si faceva sentire colla violenza degli esattori, degli avvocati, de cacciatori, de gastaldi dei prelati, che qualche volta vi capitavano armati, splendenti d’oro in compagnie scandalose. Onde le menti semplici ne andavano sconvolte, e se alcuno rammentava le dottrine quì sparse da Arnaldo da Brescia tre secoli prima, trovava terreno avido di riceverle. Pertanto, fosse tradizione di quelle eresie, fosse veramente zizzania antica degli alpigiani (valdesi), contro i quali furono ordinate da Roma nuove presecuzioni nel 1498, è certo che nel secolo XV in tutte le montagne lombarde era popolare una reazione, in parte anche eretica, contro i vizii dell’alto clero feudale, e che questa opposizione si traduceva in canzoni popolari, in epigrammi, in dipinti persino sulle facciate delle chiese, in pratiche scismatiche, Per cui, se i rimedi contro la riforma non venivano pronti ed energici, essa avrebbe guadagnato non solo la Valtellina, ma eziandio tutte le valli confinanti. Il possesso di queste terre fu vacillante e turbato per Venezia sino al 1509, quando le perdette dopo la battaglia d’Agnadello, e d’allora al 1518, anno in cui ne ripligliò l’intero e tranquillo dominio, questi luoghi di confine furono cruento teatro di mille rivolgimenti. Il provveditore Gritti per Venezia entro il Brescia il 26 maggio 1516; Verona le fu ceduta il 24 gennaio 1317; ma governo regolare delle valli lombarde non si ordinò per Venezia che nell’anno appresso. Fra i manoscritti della Quiriniana di Brescia si trova che nel dicembre 1485 frate Antonio, inquisitore a Brescia, fece invocare da Venezia assistenza del braccio secolare contro eretici nel plebato di Edolo, accusati di negare i sacramenti, di immolare fanciulli (come gli ebrei) e di adorare il demonio Barbaro, podestà di Brescia per la dominante, ed il di lui vicario dottore Alberto degli Alberti, non prestaronsi a secondare l’inquisizione; laonde il frate ed il vescovo di Brescia impetrarono il breve 13 settembre 1486, minacciante i ricalcitranti ad eseguire le sentenze ecclesiastiche, mentre il legato del papa ed il patriarca di Venezia ottenevano l’adesione del senato. Ma nel febbraio del 1487 il podestà resisteva ancora, nè faceva eseguire una sentenza contro donne eretiche, delle quali una si trovò innocente, le altre sembrano poi state punite. Perciò l’inquisitore predicava eretico il vicario del podestà; ma la repubblica gli fece intimare moderazione.

Fra i disordini e l’anarchia di questi mutamenti, l’inquisizione a cheto s’era assisa nella Valle Camonica del 1517, non sappiamo come e per qual motivo, giacchè nessuna delle storie di Bergamo e di Brescia ne fa cenno, nè ci venne fatto trovarne memorie scritte nella valle, dove nondimeno ne dura la tradizione. Il perchè siamo costretti limitarci alle indicazioni incomplete, ma gravi, che serbansi ne volumi manoscritti di Marin Sanudo alla Marciana, e nelle deliberazioni del Consiglio dei Dieci negli Archivi generali di Venezia. Nota il Sanudo (Vol. 23, p. 431) essere nel principio dell’estate del 1518 giunte a Venezia lettere da Brescia, avvisanti il senato, aver l’inquisitore fatto brisar da settanta strighe de Valcomonica, tolti loro beni, e dati alle Chiese, laonde i tre capi del consiglio dei dieci scrissero energicamente ai rettori di Brescia, perchè non avessero fatto rapporto d’una cosa sì grave, perchè l’avessero tollerata, ed ordinarono loro provvedessero a togliere ulteriori esecuzioni. Da altro cenno poi si rileva che dalla valle erano venuti eccitamenti a Paolo Zane, vescovo di Brescia, affinchè si recasse colà a guidarvi l’inquisizione, e ch’egli, recatovisi con un domenicano e con predicatori, fece abbruciare alcune streghe ad Edolo, si ridusse a Cemmo dove pose tribunale centrale, e mandò vicarii a Pisogne, ad Edolo, a Bienno.

Le confessioni suggerite ed estorte da quel processi, e il terrore ed il delirio di molti, aveano sì diffusa la credenza nelle operazioni diaboliche degli infelici accusati che lo stesso Carlo Miani, nobile veneziano, castellano di Breno nella valle, il 24 giugno 1518 scriveva al dottore Marino Zorzi essere stati in quella valle abbruciati alcuni che avevano tolto il Gran Diavolo per loro Dio, e che aveano fatto morire parecchie donne ed uomini. E confusamente gli viene spiegando le operazioni diaboliche degli inquisiti, raccolte dalla voce pubblica e dai processanti. Giovani donne, egli dice, eccitate dalle madri, fatta una croce in terra, la calpestano e sputacchiano, quindi si presenta loro un bel cavallo, sul quale montate insieme al demonio istigatore si trovano d’un tratto sul piano del Tonale, dove sono danze e banchetti. Ivi sono introdotte in una sala magnifica, coperta di drappi di seta, nella quale un signore, seduto su tribunale d’oro e di pietre preziose, loro fa svillaneggiare la croce, poi le accompagna a donzelli bellissimi. Alcune a Breno tormentate confessarono haver facto morir homeni infiniti mediante polvere avuta dal demonio, la quale, sparta all’ aria, facea sorgere procelle; e con essa una asserì avere ucciso duecento persone. Dissero anche avere ricevuto dal demonio un unguento, col quale, cosperso un bastone o la conocchia, poteano da quelli essere portati sul monte.

Una lettera del 28 luglio 1518 del dottore Alessandro Pompeio da Brescia aggiunge che queste bestie heretiche fanno diventare cavallo il bastone, sul quale montato il corriere del cavaliere di valle Pasino andava in Francia e Spagna a trovarsi coi soci, e che sul yotale talvolta si raccoglievano sino due mila cinquecento persone ai conciliaboli. Altra lettera contemporanea da Orzi Nuovi dice gli abitanti di Valcamonica gente gozzuta e silvestre che ricevette la stregoneria dall’Albania, che ne erano infetti parecchi preti, i quali non battezzavano, onde da due mila se ne trovavano costà senza tal sacramento, e che celebravano la messa come dio voleva. La frenesia e l’esaltamento prodotto dallo spavento e dai tormenti sono manifesti in queste dichiarazioni dei processati; ma pure fra il delirio traluce qualche cosa che può essere verità, come le relazioni colla Grecia, colla Francia, colla Spagna, dove il cancelliere della valle spediva un suo corriere. Il piano del Tonale ne’ tempi pagani era sacro al nume tonante Pennino, e dalle molte valli che vi collimano sarannosi colà raccolte molte processioni a cantare, danzare, banchettare al nume correttore delle procelle. Cessata anche tardi l’adorazione di quel Giove alpino, le pratiche sollazzevoli ed i tripudii avranno continuato, pel motivo che serbaronsi le feste di maggio, il carnovale, le ferie d’Augusto, le danze della notte di S. Giovanni, e cento altre antiche costumanze. Dunque anche il racconto del Tonale, fosse tradizione, fosse esagerazione, contiene qualche fondo di verità. E si aggiunga che in mezzo a credenze e riti eretici, a continuazione di feste gentili, doveano anche essere artificii di maligni e perversi, i quali usavano la semplicità e l’ignoranza di que poveri valligiani a soddisfare passioni malvagie; giacchè da altra lettera dell’agosto 1518 rilevasi che alcune processate confessarono avere bevuto certo vino tristo di sapore. E sarà stato sonnifero produttore di delirio, che si trova indicato in altri processi di stregheria, e che spiega la concordia di molte confessioni di commerci col demonio. Così la relativa verità di una parte violentava la ragione ad aggiustar fede all’intero, delle deposizioni, in qualunque modo fossero strappate.

Di tutte le relazioni capitate al senato veneto di quel barbaro processo, e riferite dal Sanudo, la più notevole e che fece impressione più profonda è quella da Brescia dell’agosto 1518, di tale, che pare veneto, il quale andò espressamente per verificare i fatti a Pisogne, e scrive. – In Valcamonica in quattro luoghi furono abbruciate già 64 persone, altrettanto sono in carcere e circa cinque mila sono indiziate d’infezione.» Allora la popolazione della valle toccava ai 50 mila, di cui 20 mila soli erano oltre l’adolescenza; quindi un quarto della popolazione era accusato. A Pisogne il 16 luglio lo scrivente chiese al vicario, prete Bernardino Grosso, di vedere con altri otto streghe in carcere condannate al rogo pel giorno dopo; e questi loro rispose: Non voglio che li date fastidio, perchè sono confessate, e non vorave che le se turbassero. Il giorno appresso, tratte fuora pel supplizio, si videro recitare divotamente orazioni, ed una disse al vicario: a me fate gran torto, non sapete voi perchè non voleva dir a vostro modo che me diceste vachasa ed altre disonestà, e me giurasti lasciarmi andar se diseva come volevi vui; e così replicarono le altre, fra le quali una gridò: el non è vero che vedessi mai in Tonal (e qui nomina parecchi complici che avea falsamente accusato), ma me li hanno fato dir per forza, e questo dico per discargo de mia coscientia. (p. 471). Lo scrivente, che le vide tutte abbruciare, dice che quattro per lo spavento erano già morte prima che il fuoco le toccasse, e ne fuggì a Brescia inorridito.

Forse questa relazione non era giunta ancora, che la signoria veneta, istruita da varie parti nel consiglio de’ dieci, il 31 luglio 1518 deliberò scrivere al podestà di Brescia, facesse tosto sospendere i processi, e mandasse a Venezia quelli de 62 condannati, e di quelli ancora in carcere, ed il capitano della valle, e gli inquisitori. I quali aveano guadagnato tanto partito che la valle mandò tosto Valerio Dabene prevosto, D. Bernardino Grosso, fra Gregorio, Bernardino Dabene, e Damiano Federici di Edolo a Venezia ad impetrare che i processi fossero continuati, ed a giustificare l’operato degli inquirenti. Il consiglio, esaminati tutti i fatti, decise riferirne ad Altobello Averoldi, legato del papa, perchè provvedesse accordandosi anche col patriarca di Venezia. Il legato ne scrisse a Roma; donde il pontefice mandogli un breve, perchè provvedesse circa le eresie manifestate sì nel bresciano che nel bergamasco. Ma nel settembre del 1518 rimanevano ancora nelle carceri della valle 40 persone in grande miseria, laonde il consiglio dei dieci eccitò il legato a recarsi sul luogo ed esaminare il vescovo di Brescia, i vicarii, gli inquisitori, i giudici, i notai e quant’, altri avessero avuto parte in quella causa. Giacchè, soggiunge quel consiglio, i processanti non hanno fatto debitamente l’ufficio suo, et hanno agito con grande severità, per quanto è la fama, mossi da cupidità di guadagno (i beni de’condannati confiscavansi) contra juris ordinem, et contra quello si contiene nel sapientissimo et justissimo breve di S. Beatitudine. Tutto ciò riferisce la repubblica al suo ambasciatore a Roma, perchè impetri da S. Santità ordine al legato di rivedere i processi senza concorso de’ cessati inquisitori.

Ci mancano i documenti dell’andamento correlativo ; ma troviamo una parte del consiglio de’dieci, pubblicata da Romanin, che dice essersi deliberato dover essere deputato alla inquisizione di Valcamonica « uno o doi reverendi episcopi, insieme con un reverendo inquisitor, i quali tutti sieno di dottrina, bontà ed integrità prestanti, acciò non s’incorri nelli errori vien detto « esser seguiti sino a questo giorno, sed imprimis si trovi alcun espediente che l’appetito del denaro non « sia causa di far condannar a vergogna alcuno senza esser con minima colpa, siccome vien dimostrato sin « ad hora in molti esser seguito. Et diè cader in consideratione che quelli poveri di Valcamonica sono – gente semplice e di pochissimo ingegno et che hariano non minor bisogno di predicatori con prudenti instruttioni della fede catholica, che di persecutori con severe animadversioni, essendo un tanto numero di anime quante si ritrovano in quelli monti et vallade». Ordina finalmente che per buon esempio di tutti sieno castigati quelli che havessero perpetrati mancamenti con mormoratione universale.

Condotta sì prudente, sì savia, sì illuminata basta da sè a fare il più alto elogio del governo di Venezia, il quale, se allora non avesse stese le sue ali proteggitrici su questa misera valle, i roghi vi si sarebbero centuplicati, a quel modo che continuarono ad ardere nelle propinque Valtellina e valli del comasco. La repressione di Venezia poi dovette essersi dimostrata tanto giusta che le conciliò adesione anche dal clero; laonde frate Gregorio di Valcamonica ne’Curiosi trattenimenti pubblicati a Venezia nel 1698, riassume tanto processo in queste laconiche espressioni – «Da alcuni sempliciotti, su deboli fondamenti poggiati, furono diverse persone della valle querelate per streghe. La conclusione della causa fu che, trovato insufficiente il fondamento, e non punto convinti li rei pretesi, si consegnò alle fiamme l’accusa, e si rimandarono alle case loro liberi li accusati (p. 564)». – Per non irritare e ridestare spirito di vendetta, tacque degli arrostiti, de’torturati, degli infamati, de’ fuggiti, de’denudati. E noi concludiamo, solo rammentando che l’abolizione del processo non può essere sospetta, essendosi operata per delegazione pontificia dal legato e dal patriarca.

Ma nel secolo XVI, in cui anche quel grande ingegno rivoluzionario di Paracelso consigliava abbruciare tutti i maghi, sì forte traeva ancora la corrente vorticosa contro le pratiche occulte, che travolse persino il governo veneto tanto mite ed illuminato. Giacchè nel 1585 tre nobili veneti scrissero la sentenza di morte del nobile Francesco Malipiero per magia, e di carcere temporario e d’umiliazioni pubbliche dell’altro nobile Francesco Barozzi di lui complice, dottissimo pe’ tempi suoi, perchè commentò Platone ed Aristotile. Tale magia consisteva nello studio delle opere di Pietro d’Abano e di Cornelio Agrippa, e nell’avere nell’isola di Candia imparate da un greco arti diaboliche astrologiche, colle quali suscitarono tempeste, evocarono spiriti, preconizzarono il futuro. (Manos. alla Marciana). Se questo processo non copriva cose politiche, se era sincero, fa argomentare quanto dovesse essere patente la iniquità di quello di Valcamonica, e rende più cospicui i tristi effetti della barbarie.

 

 

 

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